Simona Bertozzi e Alessandro Sciarroni al Palladium di Paolo Ruffini

Foto di Giuseppe Follacchio

Serata di corrispondenze al Teatro Palladium di Roma per Vertigine, la stagione del Centro Nazionale di Produzione della Danza di Roma (programmata da Orbita Spellbound), con due momenti uno a seguire l’altro che hanno visto protagonisti i posizionamenti coreografici di Simona Bertozzi e Alessandro Sciarroni. Due tempi per due brevi lavori indipendenti tra loro e accomunati dalla presenza in entrambi della performer Marta Ciappina e da un “segno” di essenzialità archeologica nell’approssimarsi di una verità terminale. Quella verità, nonostante l’incertezza del concetto stesso di verità in questo tempo manipolato, ostinatamente porti a dissezionare «una cultura sulle sue esperienze-limite (e che) significa (anche) interrogarla ai confini della storia, su una lacerazione che è come la nascita stessa della sua storia». Le verità offerte da Bertozzi e da Sciarroni non stanno nel corpo (seppure attraverso di esso vada a decifrarsi il linguaggio) ma nel potere metalinguistico dell’atto, di per sé impaginatore di significati ben oltre le apparenze sceniche, atto a suo modo tragico perché esausto e arreso al sentire soggettivo, quasi intimo, in quell’idea nietzschiana di una struttura seppure «tragica a partire dalla quale si forma la storia del mondo occidentale (e che) non è altro che il rifiuto, l’oblio e la silenziosa ricaduta della tragedia» (1).

Foto di Giuseppe Follacchio

Oblio come oggetto di conoscenza, come limite, come processo di profondità a-morale, come conflitto in un sistema di dominio. La serata ha presentato in una sua prima parte il lavoro di Simona Bertozzi Sista, dove con la Ciappina, in scena Viola Scaglione, si innerva nelle trasparenze rituali di un corpus di movimenti inanellati in progress al limite di una riflettente operazione per quadri dialoganti; due figure, un’unica opportunità nell’approssimarsi di decodifica reciproca, in quei gesti di accenni danzati e piccole fughe algebriche che nutrono l’una per l’altra la disponibilità all’ascolto, alla resa delle proprie reticenze, quasi un desiderio di recuperare un certo spazio esiziale, archetipico e necessario. Attente in quell’attesa, “translucide” come figure alla ricerca di verifica di loro stesse. Sista è un solo danzato da due protagoniste, un corpo non all’unisono ma amalgama della stessa intenzione, di una identica complicità, traccia sulla quale il lavoro si lascia diluire in impressioni soggettive che differenziano le due. La coreografia di Bertozzi immortala un pantheon di possibili atti di fiducia, quasi a liberare dalla griglia coreografica le indoli di ciascuna, un portato per certi versi istintuale, che lascia presagire regole non scritte (né dette) dell’improvvisazione, generatrici di immaginari e flashback decisamente cinetici di un vocabolario condiviso.

Foto di Giuseppe Follacchio

Op. 22 N°2 è invece l’assolo di Marta Ciappina ideato da Alessandro Sciarroni, nell’indicazione data di un’opera ispirata al poema sinfonico del compositore finlandese Jean Sibelius che porta con sé altri archetipi, altri scavi nell’archeologica memoria del contemporaneo e in cui sembrano affiorare (nella partitura quanto nella composizione coreografica) miti e quotidianità così sinergicamente liminali alla stessa Ciappina, superlativa in quel suo piglio straniante e al contempo conflittuale, quasi a introiettarne il senso prodromo di un’imperiosa vertigine alla Marianne dei nostri giorni. La coreografia si lascia assorbire con la doppia versione di sé, una composizione di segni “irriverenti” e “impressioni” fisiche di straordinaria (e ferma) efficacia, prendendo a prestito tratti della stessa tradizione di uno Sciarroni epico nell’autocitazione del ballo, ma poi il guizzo è dietro l’angolo, lo scarto dal proprio repertorio si fa tagliente e politico, nel ripensare alla durezza di un contributo della sragione (direbbe Michel Foucault) che seduce, rivendicando diversità e opposizione, rispetto alla confezione per cui la danza sembra essere destinata. Ecco allora l’azione che si compie nel silenzio della sala con la performer che ascolta la musica attraverso le cuffie, successivamente nel ripetere gli stessi passaggi mentre lei ha i tappi nelle orecchie e la musica riecheggia in sala. Esperienza quanto mai dentro il concetto di percezione, di possibilità del gesto di farsi denso e condiviso (o altrimenti evanescente e bidimensionale), un meraviglioso stordimento dello spettatore in questo dittico distopico che parla la lingua di pochi altri creatori che hanno il coraggio di non cedere.

Foto di Giuseppe Follacchio

Nota
1) Michel Foucault, Follia e discorso. Archivio Foucault 1. Interventi, colloqui, interviste, 1961-1970, Feltrinelli, Milano, 2014, p. 179.