ESERCIZI DI MEMORIA > Scene di Luca Guido e Marta Marinelli

Foto di Luca Guido

Il nostro lavoro richiede un tempo di lavoro lunghissimo dedicato alle letture a tavolino, a volte un anno. Il testo viene elaborato drammaturgicamente da Marco Isidori, ma il teatro ha bisogno di essere visto, perciò, mentre lui traduce in linguaggio “isidoriano” i testi classici, Daniela Dal Cin progetta lo spettacolo: il bozzetto, il luogo, l’oggetto che rappresenterà il testo. Queste due teste lavorano insieme e quando le due dimensioni sono chiarite allora comincia il lavoro artigianale.  Dal Cin presenta gli schemi, i disegni tecnici, addirittura i tracciati elettrici, mentre Marco inizia il lavoro con gli attori sul testo. Quando la partitura vocale è pronta, quasi sempre sono pronti anche la scenografia, quantomeno nelle parti importanti, costumi e spazio: viene montato questo luogo ricreato nel nostro teatro o in quelli in cui può essere contenuto, e si iniziano a elaborare le coreografie immettendo direttamente il testo nello spazio. Questo è un grande privilegio.
Usiamo molti oggetti, che sono legati sia agli attori sia al lavoro di Daniela Dal Cin. Di Canzonetta da I Persiani di Eschilo (1990) ho portato, per esempio, le mani della Grande Ballerina che ho interpretato io. L’abbiamo chiamata così perché era un multiplo attoriale: gli attori erano due, uno sull’altro; una danza folle in cui, alla nascita di questo spettacolo, nella parte di sotto c’era Ferdinando D’Agata con i tacchi a spillo che portava me sulle spalle.
Una performance estrema, sia a livello vocale che fisico, che durava circa mezz’ora. Da I Persiani avevamo preso la parte del Messaggero che ripete il parodo con i morti e la Battaglia di Salamina, ovvero le parti anche foneticamente più forti. Per renderlo ancora più grande, questo personaggio aveva in testa una tiara molto mobile con delle mollette da bucato appese. Sono molto molto affezionata a queste mani di balsa su cui Dal Cin ha disegnato le venature di due legni diversi: ciliegio e l’altro forse noce o larice. Non sono reali, sono una realtà costruita. Questa piastra in metallo è il segno di una frattura. Venivano legate alle mie braccia. Immaginate di stare sulle spalle di un altro attore e, in più, avere altre braccia legate alle mie ad allungare il tutto: l’attore deve scaricare la tensione da qualche parte, in questo caso sul povero Ferdinando D’Agata. La performance era basata su questa doppia spinta: la danza che spinge verso l’alto e la recitazione che invece spinge verso terra. Queste due spinte creavano un’energia fortissima che serviva a raggiungere e colpire emotivamente lo spettatore.
Potrei parlare per ore dei processi di lavoro dei Marcido, il testo, le traduzioni, la creazione di un immaginario, ma a me, come interprete, interessa ora mostrare quegli oggetti che testimoniano la fatica, una fatica che per fortuna non si avverte grazie all’intervento dionisiaco, alla ritualità del nostro teatro, ma esiste, ed è presente, soprattutto nel momento in cui lo spettacolo viene costruito. La tiara che avevo in testa era retta da un anello e inizialmente doveva pesare ancora di più, ma il problema principale era riuscire a farla muovere. Altro rischio di questa performance era il non vedere: avevo questo occhio dipinto sulla fronte e non vedevo il pubblico. Negli spettacoli precedenti non mi era mai successo e riuscivo, come dice il buon Petrolini, a “governare le maree”. Poi, impietositasi, anche perché io mi lagnavo, devo dire la verità, Daniela Dal Cin ne alleggerì il peso… Era sempre particolarmente fastidiosa, comunque, mi ricordo che uscivo da quella performance sempre con un piccolo cerchio alla testa.

Foto di Luca Guido

Nel 1993 abbiamo messo in scena Spettacolo, tratto dalla Fedra di Seneca: considerata irrappresentabile già ai suoi tempi, noi di Fedra abbiamo fatto una sorta di Wanda Osiris della tragedia latina, che scende da una grande scala lignea accompagnata dai cori dell’amore e della bellezza cantati da uomini coi coturni che, in verità, erano tacchi a spillo. Come dicevo, l’attore Marcido è sempre in sofferenza. Con i tacchi a spillo bianchi danzavamo su questa piccola scala alta e stretta. Fino a quel momento la Marcido aveva sempre creato i luoghi dove il pubblico era ospitato al suo interno o molto vicino.  Questo fu il nostro primo spettacolo in uno spazio all’italiana, ma racchiuso in un grande televisore alto quattro metri. Avevamo una partitura di musica concreta, da sempre la nostra modalità di utilizzare il testo: un metodo che l’interprete utilizza per fissare il dato registico vocale e che io ho messo su pentagramma. Era un linguaggio nostro, uno slang di scrittura. Una nuvola che sta sopra una parola significa leggerezza; una scrittura scura indica una vocalità di gola, quasi un ruggito. Ci sono i cartelli, per scandire le parole come ad una manifestazione. È una partitura molto complessa che doveva ridare semplicemente questa impressione di selvaggio, e così è stato.
Nella mia valigia di oggi ho inserito una testina in lattice, disegnata da Daniela: la troviamo qui in A tutto tondo. Nuova certificazione del mondo di Suzie Wong (2000), tratto dal famoso romanzo Il mondo di Suzie Wong, best seller degli anni Settanta in Italia. Il nostro Suzie Wong è un manifesto artistico e politico. Sul sipario di legno che veniva calato all’inizio dello spettacolo erano montate queste testine impalate a recintare il nostro territorio, come per dire: “Attenzione, zona di pericolo”. Era un esperimento claustrofobico di spazio. C’era un coro di sei attori più Suzie Wong, una grande falena, che impersonificava la poesia. Quando abbiamo debuttato a casa mia ho rischiato l’arresto anche quella volta. Io ho sempre cercato case in cui ci fosse la possibilità di fare un teatro e lì avevamo una sala con in fondo un salottino cieco, senza finestre. Rivestimmo lo spazio come una sorta di camera manicomiale imbottita, ma anche con elementi rosa da boudoir: era la casa di Suzie Wong dove tutto avveniva e aveva anche il pavimento che si sollevava, arrivando fino al soffitto. Un signore di Torino, di cui non ricordo il nome e che lavorava per il cinema, realizzò queste testine ed anche la mia maschera: la faccia di Suzie Wong con tanto di pettinatura montata su un calco in lattice della mia – un’altra esperienza che preferirei non ripetere!

Foto di Luca Guido

Le braccia della Grande Ballerina tornano sempre, anche in Macbeth (2002): coproduzione del Teatro Metastasio, ha debuttato al Fabbricone, spazio straordinario per quello spettacolo. Avevamo una torre di 6 metri per 6 che chiudeva il pubblico all’interno di un ring quadrato. Gli spettatori entravano nella torre e salivano attraverso il ponte levatoio. Il progetto iniziale prevedeva che il ponte si chiudesse, ma ci siamo scontrati con il rischio di provocare attacchi di claustrofobia nel pubblico: ma questo essere in comunione, così vicini, in una relazione spaventosa con gli spettatori e noi, vestiti da persone normali, anche se avevamo i capelli ossigenati, generavano sospetto e domande come: ma questi chi sono?
In quanto a reazioni negative con il pubblico, in passato era accaduto che uno spettatore di Una giostra: l’Agamennone (1988) si calasse nel buio e scappasse. Fu l’unico, però. Anche quello spettacolo rappresenta un caso emblematico del nostro artigianato teatrale. Agamennone, per esempio, era costruito in legno prezioso: larice, douglas e ciliegio. I suoi ferri e quelli delle serve sono stati battuti, rinforzati e firmati da un fabbro. Anche la parte lignea era stata commissionata ad un artigiano della Valle Varaita: una cosa enorme, 8 metri per 12, smontabile molto facilmente perché composto tutto da dadi a incastro a coda di rondine, come facevano i vecchi falegnami, non fissati. Ognuno trasportava il suo blocco: io personalmente trascinavo la mia passerella del coro e vi assicuro che recitare dopo essersi portati la propria croce dava una sensazione diversa all’attore che deve recitarci sopra, come se prendesse forza dal fatto di essersi ricostruito lo spazio. Nel monologo dei fuochi di Clitennestra c’era un momento di buio tagliato da una sfera rotante illuminata da dentro: in quel momento avvertimmo la fuga di quello spettatore.
Se non avete mai visto i Marcido, posso dirvi che non è un teatro che può essere preso come aperitivo o come digestivo. Lo spettatore può avere solo due reazioni: o “per sempre con noi”, o “mai più questi pazzi”. Non ci sono vie di mezzo, questo è sicuro.
Un’altra nostra caratteristica è quella di usare il corpo dell’attore come oggetto di scena. In Suzie Wong tutti gli attori, uomini e donne, hanno i capelli rapati. Non poteva che essere così per via del trucco in stile Opera di Pechino. Per qualche uomo non è stato semplice accettare questa condizione, per le donne è stato un vero atto di coraggio. In Happy Days in Marcido’s field (1997) indossavamo le cuffiette ed eravamo completamente nudi e in quel caso fu davvero un colpo di genio, devo dire. Infatti, in Giorni Felici di Beckett, pièce da cui è tratto lo spettacolo, il personaggio di Winnie è interrato in una montagnola di terra, di sabbia o immondizia. Quale segno più grande per sottolineare quella che è un’opera su una mancata comunione affettiva fra esseri umani, se non trasformare la terra in corpi, carne umana? E la carne non si veste, si lascia esattamente com’è, non si esibisce in quanto corpo: poteva essere solo carne attoriale con i suoi lividi, la sua cellulite, le sue mancanze, anche.  Ciò che risultava era l’immagine che Beckett richiede: lei che sprofonda. Solo che, invece di sprofondare, sono i corpi che salgono. Una invenzione straordinaria. Togliendo l’attaccatura dei capelli, le cuffiette distraggono dalla percezione sessuale di chi è nudo. Grazie a questo semplice accorgimento, viene provocata quasi un’astrazione che rende i corpi tutti uguali e confonde le cose. Marco Isidori non tocca Beckett, non lo ritraduce, come fa di solito, perché i due autori evidentemente sono in sintonia, ma elimina, per esempio, gli oggetti, che a volte vengono evocati, ma più spesso taglia la parte in cui si nominano. In quella struttura non c’era posto per l’oggetto.
Con gli oggetti teatrali con cui ci siamo incontrati nella nostra carriera il rapporto è quasi sempre stato di conflitto, soprattutto con ciò che andava portato indosso e che poteva risultare pesante o rendere precario l’equilibrio: prima rifiuto, poi l’impossibilità di far senza. Accade, infatti, che il disequilibrio ti collega con uno stato recitativo più forte di quello che puoi raggiungere da seduto, al sicuro. Essere sospeso, per esempio, crea una connessione energetica: una dimensione dionisiaca altra, in cui la fatica non si avverte, la avverti dopo, e riesce a scatenare una festa con il pubblico che ti sostiene e poi ti rimbalza. Alla fine, voi siete caricati e noi distrutti, ma siamo stati felici insieme.