ATTRICI> “Gli artisti devono tornare ad essere dei catalizzatori di energia”. Incontro con Elena Bucci di Laura Palmieri

Elena Bucci in “In canto e in veglia”, ex Chiesa di San Martino a San Miniato 2014. Foto di Massimo Agus

Il terzo incontro della rubrica Attrici, a cura di Laura Palmieri, è dedicato a Elena Bucci.

Cosa significa essere una attrice? Ce lo raccontano alcune tra le maggiori interpreti del nostro teatro, di cui ricorderemo negli anni – o già nel presente – lo stile, il rigore, la potenza, la personalità.

Un incontro vis-à-vis per tracciare percorsi, d’arte e di vita, per scoprire segreti e aspirazioni di uno dei mestieri più belli del mondo.

Non solo attrice, ma anche regista, autrice, cantante, con l’intelligenza organizzativa e gestionale di una vera e propria capocomica, erede delle grandi innovatrici del teatro tra Otto e Novecento, ma anche sempre radicata nella contemporaneità. Un lungo percorso quello di Elena Bucci, iniziato in quegli anni Ottanta in cui sono nate e si sono consolidate alcune figure di “attrici-artiste” – come le ha definite Claudio Meldolesi – che ancora oggi costituiscono un punto di riferimento imprescindibile per la storia del teatro italiano. Una autrice di sé stessa, come avrebbe detto Leo de Berardinis, incontro fondamentale del suo percorso, come anche quello con Marco Sgrosso, con cui fonda nel 1993 la Compagnia Le Belle Bandiere, tutt’ora in piena attività.

Elena Bucci partiamo dall’inizio. Da quella adolescente che da Russi di Romagna si sposta a Bologna per studiare medicina, ma che poi invece sceglie il teatro. Come è andata? Cosa ti ha spinto verso il teatro?

Negli ultimi anni, grazie alle domande degli altri, ho scoperto quanto siano antiche le radici della mia passione. Sono nata in un piccolo paese dove tra l’olmo e il cortile respiravo quello che restava delle tradizioni contadine. Quando imparai a leggere, la mia solitudine si popolò di presenze e le mie bambole cominciarono a parlare. Pensavo che lo facessero anche quelle delle mie amiche che ancora si ricordano di come le costringevo a fare teatro dietro una tenda verde. Andavo a prendere a casa i miei compagni di scuola perché recitassero nella nuova compagnia dei giovani della parrocchia. Per me tutti dovevano fare teatro. Mi pareva che diventassimo più belli, che sparissero confini e divisioni. Timida come ero, trovavo gesti e parole per esprimere le visioni che avevo in testa e tutta la mia scomposta empatia verso gli altri. Ma certo non consideravo il teatro come una professione possibile, in una famiglia dove i miei genitori erano stati i primi a laurearsi! Così per sentirmi utile e fare del bene scelsi di studiare la medicina, ma scheletri e sangue erano troppo per me e dopo una settimana, senza sapere perché, mi iscrissi a tre laboratori e a una scuola di teatro, tutti insieme. Anche per questo ammiro tanto Čechov che riuscì ad essere scrittore, uomo di teatro e medico con tanta dedizione e cura. Io, che non avevo quella forza, mi accontentai dell’illuminazione del teatro.

A Bologna frequenti la Scuola Galante Garrone e incontri quello che sarà il tuo Maestro: Leo de Berardinis. Era il 1985 e in quel periodo Leo stava iniziando un nuovo percorso con l’intento di formare una compagnia di giovani attori dopo la separazione con Perla Peragallo.
Hai già parlato tante volte di questo tuo periodo con Leo, che è durato più di 15 anni, ma se dovessi sinteticamente raccontarci la cosa più importante che ti ha lasciato?

Leo ci chiedeva di diventare attori-autori consapevoli di noi stessi, dei nostri strumenti, della voce, del corpo, della relazione col suono, la luce, lo spazio, il mondo. Voleva che i testi diventassero parte di noi, che fossimo noi stessi il testo. Ci spingeva ad essere autonomi, rigorosi e liberi, nonostante la sua natura gelosa. Ad ogni prova era richiesto l’impegno di un debutto e vita e teatro si intrecciavano sempre più. La compagnia era la mia casa, un paradiso. Non avevo conosciuto provini, brutti spettacoli, umiliazioni e mi prendevo anche il lusso di lamentarmi di tanto in tanto. Andarmene era impensabile, ma quando mi richiamò perché avevo travisato il senso dell’improvvisazione che lui stesso ci chiedeva, non ebbi scelta e mi allontanai, con uno strappo doloroso.

Se volevo libertà totale dovevo viaggiare sola. Ma ci fu da parte di entrambi il desiderio di chiarire, e per fortuna mi telefonò prima dell’incidente che gli cambiò la vita. Ricordo dove ero, la luce, le parole: «ho nostalgia della tua voce in scena», disse.
La voce per noi era l’anima. Ci ha trasmesso strumenti che ci hanno permesso di avventurarci ovunque e osare, di abitare ogni tipo di teatro. Diceva che «il teatro si può fare anche in mezzo alla strada, alla luce di un semaforo, anche al buio, da soli». Quando la lotta per ottenere spazi e mezzi diventa umiliante, sentire di poter esistere quasi con niente è un dono del quale lo ringrazio quotidianamente.

Elena Bucci con Leo de Berardinis in “King Lear. Studi e variazioni”, Teatro Testoni di Bologna 1985. Foto di Piero Casadei

Questa libertà nel rigore, questo mischiare alto e basso, tradizione e innovazione, il Teatro popolare d’arte, insomma, sono elementi costitutivi del tuo percorso con Le Belle Bandiere, nella costruzione dei tanti spettacoli che hai fatto insieme a Marco Sgrosso, ma anche nelle tue drammaturgie originali.

Sì, cerchiamo un equilibrio tra la più sfrenata libertà e il rispetto di quello che ci viene consegnato da chi ci ha preceduto. Quando affronto Pinter, Čechov, Brecht, Shakespeare cerco di conoscerli a fondo, senza però soccombere alla soggezione. Li tengo accanto sul palco come se stessero scrivendo per noi. Anche nelle mie drammaturgie lascio sempre la porta aperta per farmi sorprendere dagli imprevisti della vita, da un dialetto, una frase, un racconto, un paesaggio, una foto. Mi circondo di domande che facciano saltare in aria abitudini e pregiudizi, ma non vorrei mai lasciare qualcuno del pubblico fuori dalla porta perché non gli ho consegnato la chiave per entrare.

L’altra cosa fondamentale per me è trovare la forma dello spettacolo, ho bisogno di trovare uno spazio per orientarmi tra le parole. Ricordo, per esempio, durante il lavoro su Le smanie della villeggiatura di come fossi quasi paralizzata dalla potenza della scrittura di Goldoni e dai fantasmi dei geniali attori ai quali di certo aveva rubato. E allora misi due sedie a sinistra, una a destra e tre al centro, coperte da un telo bianco, come in una casa abbandonata, e nella sedia di destra c’era lui, Goldoni, seduto di spalle perché non vedesse che con la protezione degli antenati comici facevamo otto personaggi in quattro.  Una canzone di Nick Cave mi portò il finale: misi gli occhiali da sole, immaginai di togliermi l’abito settecentesco per piombare nella noia di una spiaggia affollata del presente.
Trasformare Goldoni, Čechov, Pinter, Brecht, Shakespeare, significa per me amarli.

Elena Bucci con Marco Sgrosso in “Le smanie della villeggiatura”, Teatro Valle di Roma 2006. Foto di Tommaso Le Pera

Le smanie della villeggiatura (2003 e poi ripreso nel 2006) fu uno spettacolo memorabile che realizzasti insieme a Marco Sgrosso, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, tutti attori con cui hai condiviso l’esperienza teatrale di Leo de Berardinis.
Tornando al tuo interesse per le biografie, oltre a quelle dei grandi autori sono le storie della gente comune ad essere per te una fonte inesauribile di ispirazione, e da lì sono nate tante tue drammaturgie originali.
Hai un approccio diverso nell’affrontare questi due aspetti del tuo lavoro?

Sia quando affronto un testo che quando scrivo, la mia passione per le biografie crea un magma di suggestioni, un tessuto vibrante che mi permette di entrare in dialogo con chi non c’è più, di instaurare discussioni con le ombre. Scrittrici e scrittori come Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Ferdinando Pessoa, Čechov, Oriana Fallaci, non solo mi hanno insegnato a osservare le vite altrui, ma sono diventati essi stessi personaggi accanto a donne e uomini che vivono solo nella mia memoria. In questa folla di fantasmi mi oriento immagazzinando dati, visioni, appunti, saltando da improvvisazione a scrittura e viceversa. Autobiografie di ignoti, Canto alle vite infinite, In canto e in veglia, il lavoro sulla morte presentato ai Teatri del Sacro, sono nati così e pullulano di creature vere e immaginarie che mutano, si moltiplicano e trovano la loro voce.

Biografie, autobiografie e improvvisazione sono sempre la mia base di partenza, sia dei miei lavori solitari, sia delle rielaborazioni di testi classici, nello scambio con altri attori – quelli che scelgo sono sempre anche un po’ autori – e nella collaborazione con i musicisti. Con Raffaele Bassetti, per esempio, stiamo in silenzio per ore, e poi quando ci diciamo “proviamo” nasce magicamente una possibile struttura di spettacolo.
Il lavoro con la musica dal vivo mi aiuta a liberare la parola in maniera incredibile! Poi c’è un lavoro di rifinitura che non finisce mai, a cui solo la scadenza dello spettacolo pone fine.

Teatro Comunale di Russi 1994. Foto di Pier Franco Ravaglia

Archivio vivo è il nome di un progetto che a partire dal 1991, insieme a Marco Sgrosso e Nicoletta Fabbri, vostra storica collaboratrice, avete fatto nascere a Russi, per raccontare e conservare la memoria del rapporto tra l’arte teatrale e le persone vive. Quelle persone che hanno ricominciato a frequentare il Teatro di Russi, che siete riusciti a far riaprire dopo un lungo abbandono.
Questa attenzione all’arte del teatro e alla vita degli artisti vi sta molto a cuore ed è al centro di tanti vostri spettacoli come La pazzia di Isabella, Vita e morte dei comici gelosi, Recita dell’attore Vecchiatto nel Teatro di Rio Saliceto, Risate di gioia. Storie di gente di teatro.

Sì, in questo momento in cui il teatro appare sofferente, quasi dimenticato e disabitato, mi pare importante che la sua storia sia raccontata anche da chi lo fa, da chi sperimenta ogni giorno la sua capacità di restituire senso alle relazioni, alla memoria, alla speranza.
E poi mi sono innamorata delle figure di antenate e antenati dalle vite coraggiose e sorprendenti, che pochissimi conoscono. Allora cerco di trasmetterle, così come cerchiamo di rendere vivo il nostro archivio trasformandolo in racconto.  È come se con questi progetti e spettacoli cercassi di riattivare la connessione tra arte e vita quotidiana, di contrastare la chiusura, il conformismo e la rassegnazione, che mi paiono una rinuncia alla vita stessa. Il processo artistico è per sua natura curioso, va in cerca proprio delle differenze, delle particolarità, di tutto quello che non è riconducibile a un modello, che non si lascia definire. E penso che tutti abbiano diritto a sperimentare l’arte, da spettatori e da creatori, e non soltanto nei primi anni di scuola, e poi all’improvviso non più.

Dobbiamo tornare a diventare degli attivatori di energia, dei catalizzatori del desiderio. Penso che sia un dovere di chi, come me, ha il privilegio di vivere del lavoro che ama. La pandemia mi ha fatto scoprire la fragilità e la potenza del nostro mestiere e non voglio mai più avere paura di perdere qualcosa. Mi perderei.

Elena Bucci in “Non sentire il male”, primo allestimento al Palazzo San Giacomo di Russi 2000. Foto di Lilith Grassi

Parlando di quanto l’arte e gli artisti possano essere artefici di cambiamento, esempi di libertà e coraggio, tu hai dato vita ad una galleria di donne-combattenti, esempi di resistenza e di cambiamento: da Virginia Woolf a Katherine Mansfield, da Oriana Fallaci a Laura Betti, da Juana de la Cruz a Isabella Andreini fino a Bronislawa Wajs, una poetessa polacca di etnia rom quasi sconosciuta.
In cima a tutte, però, c’è Eleonora Duse, per te una maestra di arte e di vita, come testimonia il bellissimo ciondolo che la raffigura mentre sta recitando e che porti sempre con te.

Una donna molteplice, cangiante. Non solo attrice o autrice, ma anche una capocomica a tutti gli effetti, che sapeva conciliare scelte coraggiose e repertorio. Dalle sue lettere traspare come per lei arte e vita quasi coincidessero. La Duse è stato il mio faro nel momento della separazione da Leo, tanto difficile da gestire per me. Fu in quella condizione nuova, solitaria, in un palazzo abbandonato in mezzo alla campagna, che cominciai a studiarla per capire dove andare.

Con Loredana Oddone, Carluccio Rossi, Gaetano Colella, costruii un percorso itinerante nel palazzo e nacque Non sentire il male, uno dei miei spettacoli del cuore, che porto in scena da 25 anni. Tenere accanto Duse è una rivoluzione che mi costringe continuamente a fare i conti con quel che sono, come anche tutte le donne che porto in scena. Donne coraggiose, che hanno vissuto affermando sé stesse, il loro punto di vista, la loro visione, e che hanno pagato un prezzo altissimo per questa loro libertà, trovandosi spesso sole. L’isolamento, subito o cercato, è un tema che torna di frequente nella mia scrittura. Come vedo sola Eleonora Duse nella sua ricerca di verità, spesso le mie eroine proprio nella solitudine recuperano forza, si allenano ad attraversare ogni tristezza, a trasformare le sconfitte in vittoria.

Ti sei mai sentita discriminata nel tuo lavoro in quanto donna? Cosa è cambiato oggi secondo te per le donne nel mondo dello spettacolo?

Molte cose sono migliorate, certo, ma i numeri parlano chiaro per quanto riguarda le donne registe e le direttrici di teatro. Sono molte le donne che si occupano di teatro, ma poche raggiungono posizioni di potere.  E temo che le quote rosa siano delle false opportunità. Le cose vanno cambiate più in profondità.  Guardando a certa televisione, a certo cinema, o alla pubblicità, mi sembra che la figura della donna sia ancora strumentalizzata e che venga fatta passare per libertà un’estrema esposizione.

A volte la discriminazione è così profondamente radicata, che non viene neanche individuata. Ti faccio un esempio: mi invitano in un teatro, lo spettacolo va molto bene, e alla fine mi chiedono “chi ha fatto la regia, chi lo ha scritto?”. C’era scritto sulla locandina che la regia e il testo erano miei, ma sembrava loro impossibile che non avessi avuto aiuto. È proprio una molla che scatta quasi automaticamente. Sono fiera di essere un’attrice, ma perché dimenticare il resto?

Nel tuo percorso artistico hai conosciuto una generazione teatrale che è ancora oggi un riferimento per il teatro italiano. Cosa pensi del teatro in questo momento storico?

Penso che ci si debba guardare intorno con molta attenzione, sempre, perché la storia cambia in fretta e il teatro non sempre si trova dove si crede che sia. Forse in questo momento bisogna andarselo a cercare.
In altri anni mi pareva più facile indovinare dove si nascondesse. Ricordo quando Leo, Carmelo, trovarono spazio nei grandi teatri dai quali erano stati esiliati. Eppure, anche loro dovettero sempre lottare per difendere il loro teatro. Sento che un vecchio mondo sta naufragando, ma percepisco il movimento di qualcosa che nasce, e il movimento non è mai un male, anche se può disorientare sia il pubblico che noi sul palco.

È una rivoluzione che ancora si nasconde. Nel movimento vorrei cercare dov’è la vita vera, dov’è il teatro che vibra, quello che tocca, che emoziona, scuote e spaventa. Vorrei essere implacabile nella ricerca e trasmetterne il senso.

Elena Bucci in “Regina la paura”, Teatro Mercadante di Napoli 2010. Foto di Marco Ghidelli

Le tante vite che hai abitato, la memoria sterminata e indelebile di parole, di gesti, di interi spettacoli che vanno a costituire un repertorio preziosissimo. Com’ è la vita di un’attrice? Cosa vuol dire per te essere un’attrice?

La mia vita nutre il teatro? O il teatro fa risplendere la vita? Per me sono la stessa cosa. Le esperienze che passano attraverso il teatro non si cancellano più. Mi sento un copione vivente in ascolto di quello che mi si muove intorno, un concentrato di memoria. Alle volte ho cambiato spettacolo anche da un giorno all’altro, e per farlo cerco la solitudine, il vuoto, come se dovessi strapparmi di dosso l’essenza di una o più vite per lasciare posto alle altre. Non sono però nemiche tra loro, anzi si aiutano e si nutrono a vicenda.

Fondare una Compagnia di certo ha tolto tempo ad amori e amici, ma per me è stato un gesto di fiducia e libertà al quale non ho potuto rinunciare, un atto politico di responsabilità, che mi costringe ogni giorno a rinnovare la mia passione, a interrogarmi sul mio rapporto con il potere, con il mondo, a rischiare, a cercare. E continua ad essere un’emozione e un privilegio per me riuscire a cantare la mia nota nel coro, anche con un filo di voce.

Tenere in repertorio molti spettacoli è una straordinaria occasione per allenarmi al mutamento, all’ascolto, per non adagiarmi in quello che credo di saper fare. E poi ci permette di aggirare un mercato difficile basato sugli scambi, e mantenere vivo il rapporto con il pubblico, i teatri, gli artisti e i tecnici legati alla compagnia. Infine, in questo tempo senza memoria, mi sembra fondamentale raccontare la nostra storia e trasmettere la nostra esperienza ai giovani artisti, rispettando però la loro libertà e il loro talento.

I tuoi prossimi progetti vanno proprio in questa direzione …

Infatti. Nasce proprio da un mio progetto sulla memoria Due, lo spettacolo che debutta al Campania Teatro Festival il prossimo 11 luglio, dove Marco Sgrosso ed io indaghiamo la complicità che si è sviluppata in tanti anni di teatro insieme.
Il Salerno Letteratura Festival ospita il 19 giugno una mia Antologia personale, e poi sto continuando a lavorare all’impossibile impresa di raccogliere in un unico Grande libro le tante biografie che da sempre sono la mia fascinazione.

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