
Se in Coefore di Eschilo la vendetta di Oreste ed Elettra è la risposta necessaria all’ordine del Dio, se in Elettra di Euripide il Dio ordinante viene addirittura schernito perché il matricidio è ritenuto sacrilego, in Elettra di Sofocle il matricidio è compiuto al di fuori di ogni giudizio morale. Sofocle non condanna né assolve, non giudica, soltanto osserva il dolore, restituisce lo strazio di questa figura che non conosce ragioni, sorda ai richiami e inetta all’ascolto, nutrita soltanto dalla inarrestabile e furibonda smania di vendetta. Che non è liberazione, ma sa di sconfitta, è il limite estremo che ti ha risucchiato le forze in cui tutto inesorabilmente precipita. Il ciclo mortifero è terminato e se ricomincia è per replicare lo stesso identico destino di morte.
Non c’è risarcimento, non c’è evoluzione. L’ordine nuovo è di là da venire, le Erinni restano Erinni dentro il cuore di Elettra, che a matricidio compiuto ritorna nel bozzolo di un’esistenza senza riscatto. Raggomitolata in posizione fetale, per ritornare nel nulla o ricominciare da capo, senza ravvedimento.
Questa è la sensazione che arriva forte dall’allestimento diretto da Roberto Andò, con una Sonia Bergamasco davvero sublime, che tocca punte di modernissima isteria: la sensazione di una coazione a ripetere dominata dal male, dall’odio, dalla volontà febbrile di sopprimere e annientare.

Elettra resta quello che è, identità incorruttibile di coscienza e volontà (“Sono un caso senza soluzione, non smetterò mai di soffrire”), sorta di “ingenuo” schilleriano al di qua di ogni pensiero non disposto a servire il suo progetto diabolico. Ma prima ancora della vendetta, Elettra è ostinatamente devota al proprio dolore, ostaggio di una perversa passione che lei stessa si è costruita. Animale selvatico, irrimediabilmente ferito, è capace di ordire e ordinare vendetta, ma non si acquieta, non si risolve, avviluppata com’è nel ricordo alterato di un grembo paterno che non è mai stato tale.
Le tragedie parlano di noi. Si sa, si dice e si ripete ogni volta che assistiamo a un lavoro onesto, che non forzi la mano, che non sottolinei con artifici posticci un’attualità inscritta in parole che sono pietre miliari, ogni volta che non ci sentiamo trattati come discepoli stolti di fronte a didascalie pleonastiche e a volte ridicole.
È quello che ho apprezzato di questo allestimento, oltre alle prove d’attore di un cast di ottimo livello: la sobrietà, la stilizzazione che sfronda, restituisce forza e nitore senza diventare estetizzante, il rispetto e la cura per la parola che si leva chiara, mantenendo intatto il ritmo del verso.
Non ci sono riferimenti diretti a tutto l’orrore che ci circonda, eppure ci arriva. Con un carico di violenza e di verità che tramortisce. Vendette, rivendicazioni, accuse spietate e conflitti intestini, menzogne che lievitano come visioni in 3D, ma anche la sudditanza per gratitudine, inconsapevole, forse, inquinata di affetto, quella che racconta attraverso il legame fraterno la complicità tra assassini, il ricatto che si insinua nei vincoli di sangue e in obblighi scorretti e inalienabili, l’adempimento di una consegna, l’esecuzione del male per interposta persona. E su tutto volti disfatti, scarnificati, corpi abbrutiti, prosciugati dalla fame e logorati dall’odio, come il corpo di Elettra, uguagliata alla terra su cui si trascina, dalla quale emerge come un ragno che striscia, disturba, si mimetizza, sparisce e ricompare dalle fessure. Coperta soltanto di pochi brandelli di stoffa che le scivolano addosso senza proteggerla.

A nulla può il coro di donne guidato dalla bravissima Bruna Rossi, che la esorta a non odiare (“Non devi dimenticare ma nemmeno odiare troppo”), a nulla può Crisotemi (Silvia Ajelli), sorella saggia che in Elettra ricalca l’Ismene di Antigone, il suo contraltare che qui si presenta vestita di nero, habillé, quasi borghese, conforme al potere a cui è disposta a ubbidire pur di vivere libera.
Colei che invano tenterà di placarne il furore, con un rigore affabulatorio che disarmerebbe chiunque: non già Elettra che invece (ci) dirà, seducente, quanto sia “incredibile che si possa parlare così bene di cose sbagliate”: sbagliate. A volte un sorriso ci scappa, grazie anche alla traduzione di Giorgio Ieranò, capace di sintetizzare in una sola battuta convinzioni che ci attraversano sempre più spesso.
Ma a farci partecipi del suo infinito dolore, a rendere umana questa figura, a compatirne la solitudine, sarà soltanto Oreste (Roberto Latini) in uno dei momenti più belli e commuoventi di tutto il teatro tragico greco, a cui questa scena rende bene giustizia: l’incontro che lentamente diventa agnizione, nel quale Elettra rivela al fratello tutto il suo amore difendendo tra le mani l’urna fittizia, che ancora crede ne custodisca le ceneri. (Mi domando se Wilhelm Reich nei suoi esercizi di psicodramma dove il corpo reagisce a una sollecitazione fittizia, non si sia seriamente ispirato alla scena dell’urna dell’Elettra di Sofocle).

Per quanto riguarda il conflitto tra Elettra e Clitennestra, una sempre magnifica Anna Bonaiuto, va detto che le due attrici danno vita a un’arringa spietata, ciascuna naturalmente pro domo sua, con un ritmo e una temperatura che sale fino a esplodere quando l’autodifesa va oltre il j’accuse e diventa insulto feroce, che diffida e rinnega: “Bastarda”. Una licenza che non disdice, inglobata e forse persino neutralizzata in quel fronte a fronte contro natura.
Una menzione speciale merita il pedagogo di Danilo Nigrelli, l’esecutore “degli ordini del Dio ambiguo”: visionario come un consumato mitomane, indugia nei dettagli e te li mostra con la potenza eidetica che le parole ben dette sanno generare. Quasi una radiocronaca, la sua, in cui assistiamo ai trionfi di Oreste, ai giochi e alle corse con cavalli e aurighi, alla sua finta disfatta e a una morte minuziosamente riferita secondo la regola infallibile del buon mentitore: più grande è la menzogna, più insistiti sono i dettagli, più probabile è la sua forza persuasiva.

Ma se Oreste è morto, Clitennestra è libera. Così, mentre Elettra, disperata, invoca la Nemesi, sua madre la irride e si fa beffe di lei. Un momento, questo, in cui la tragedia si sbriciola in una (provvisoria) risata sarcastica e Anna Bonaiuto la propizia divertita, divertendo.
Del cast fanno parte Rosario Tedesco (Pilade), Roberto Trifirò (Egisto), Paola De Crescenzo e Giada Lorusso (corifee). Il coro delle donne di Micene è composto dalle allieve dell’Accademia dell’INDA coordinate da Simonetta Cartia, ben coreografato da Luna Cenere.
La scena e le luci di Gianni Carluccio evocano la facciata della reggia e anticipano la soluzione finale con ingressi tombali, viatico per gli inferi molto più che per stanze regali.
I costumi di Daniela Cernigliaro giocano sui contrasti cromatici, distinguendo nettamente la figura di Elettra da tutte le altre; le musiche di Giovanni Sollima, in dialogo con gli effetti sonori di Hubert Westkemper, sono a tratti suonate dal vivo da Sonia Bergamasco, incluse nel ruolo, tassello perfettamente incastrato nello spettacolo tutto.
Elettra
di Sofocle
traduzione Giorgio Ieranò
regia Roberto Andò
con Sonia Bergamasco, Anna Bonaiuto, Roberto Latini, Silvia Ajelli, Bruna Rossi, Paola De Crescenzo, Giada Lorusso, Danilo Nigrelli, Roberto Trifirò, Rosario Tedesco, Simonetta Cartia
Coro di Donne di Micene:
Clara Borghesi, Carlotta Ceci, Ludovica Garofani, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Arianna Martinelli, Francesca Sparacino, Francesca Totti, Siria Veronese Sandre
scene e disegno luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Giovanni Sollima
suono Hubert Westkemper
movimenti Luna Cenere
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale e INDA.
Teatro Grande del Parco Archeologico di Pompei, 11, 12 e 13 luglio 2025.
