Una solitudine post-novecentesca di Paolo Ruffini

Foto di Claudia Pajewski

Ha debuttato alla sedicesima edizione del VIE Festival presso il Teatro Ermanno Fabbri di Vignola il nuovo lavoro scenico di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, chiavi di volta dell’ensemble lacasadargilla che ha una configurazione mobile nel campo del visivo, della musica e della drammaturgia con un precipuo punto di osservazione sull’attore. In quella angolazione resistenziale che lo rende figura trapassata da eredità immemori, nell’allure forse di una espressione ch’è del moderno quanto del contemporaneo. Attore come portatore di un legame, nell’alleanza degli opposti, persino documentaristico con la scrittura lì a scomporne i segni delle molteplici sfaccettature; un attore rock star – nella tradizione di un teatro di regia post-novecentesca – costantemente in combutta con una certa solitudine che lo governa, che lo definisce esistenzialmente sempre altrove, anzi lo lascia abbandonato sulle architravi della parola e prima ancora sul fiato delle intenzioni, delle ipotesi interpretative, in quel campo di battaglia ch’è lo spazio delle azioni, ricettacolo di reperti e al contempo alveo di umori ferini, lacerazioni presentate come offertorio liturgico e dove l’attore, appunto, ne è l’officiante. E questo ultimo lavoro Il Ministero della Solitudine sintetizza ancora una volta questa pre-disposizione, questa messa in mostra di un universo alla ricerca, sembrerebbe, di una forma divelta, disossata, definendo la sua complessa struttura per mezzo di motivi improvvisi, apparentemente casuali. Complessa per la scelta di lavorare, come si intuisce, con il contributo di tutte le anime del gruppo degli attori chiamate a intervenire con le loro (anche personali) porzioni di materiali umorali e intuitivi, nella misura in cui il rischio di un possibile fermo-immagine dell’improvvisazione viene superato da quella definizione che nutre sia lo spazio interiore che esteriore dei “comportamenti” in cui sono collocati i personaggi.

Foto di Claudia Pajewski

Ognuno di essi viene descritto con tratti caratterizzanti, appigli specifici alle loro nature, quasi un affresco sociale capace di innescare una frizione fra linguaggio e comportamento. Tutto muove da quel ministero britannico che dal 2018 ha cercato di mettere una “pezza” al disagio dei tanti cittadini a fronte di una società dominata dalla contingenza, che muta rapidamente, senza orientamenti e nella quale l’individuo si ritrova spesso in un isolamento, espressione di un disagio culturale, sociale ma, soprattutto, relazionale. Rivolto verso se stesso senza una rete di protezione, l’individuo ha lo sguardo direzionato esclusivamente al proprio ombelico per incapacità di spostarsi da sé, esorbitato dalla propria inazione (o con reazioni scomposte o addirittura violente), ammansito dai feroci cambiamenti sociali e, di fatto, in questo travaso nella moltitudine contemporanea con un enorme disagio di appartenenza dove ognuno si rifugia nella propria bolla (nell’accezione che ne dà il filosofo Peter Sloterdijk) per mimetizzarsi, omologarsi e annullarsi. I protagonisti de Il Ministero della Solitudine sono Alma, intimorita dalle trasformazioni e ossessionata dal rumore di un’ape quando muore; F. (di cui non viene mai pronunciato il nome) impegnato nella richiesta continua di sussidio al Ministero in questione; Primo, figura a suo modo deviante, descritto di poche parole e atto al controllo dei contenuti non ammissibili dei social; Simone è l’addetta del Ministero, una sorta di controllore della Stasi e, infine, Teresa, impegnata nella scrittura di un romanzo, avviluppata in un ruolo che stenta a definirla. Hanno la stessa grafia architettonica della scrittura “occasionale” di Peter Handke in L’ora in cui non sapevamo niente l’uno dell’altro, una tassonomia drammaturgica ispessita dalle pause, dai vuoti e dai frammenti di vita descritti in un flusso continuo di movimenti, dove si intersecano desideri e dichiarati atti di fallimento nel sopravvivere alle cose e alle distanze emozionali. Tutti i profili, anche nell’assenza di “discorso”, si motivano per flash, episodi frammentati di vite e, raccogliendo le suggestioni di un altro filosofo, Byung-Chul Han, finanche nella sfaccettatura di una società immersa nella globalizzazione e incupita in una sorta di solitudine profonda, un isolamento per certi versi di massa, come nel Melancholia di Lars von Trier, che non lascia speranza. Uno stato d’attesa, una immobilità asfissiante, una deambulazione significante, una condizione di torpore urlato, una morte apparente dell’animo. E in questa cornice da “fine dei tempi” lo spettacolo si deposita nello spazio scenico impaginando una centrifuga gravitazionale di “impressioni”, pennellate figurative sostanzialmente nella linea di un pop-surrealism acido e impietoso dove le cromature sono sgargianti e per nulla rassicuranti. Tutto procede con andate e ritorni da quelle biografie divelte, scomposte, sole in definitiva, anche lontane dalle rispettive memorie, ormai cancellate nell’affanno della vita.

Foto di Claudia Pajewski

Al centro una prismatica scenografia orienta le diverse “abitazioni” e gli “attraversamenti” dei personaggi, dalla vetrata di un frigo alla grande arnia, ogni spazio trasfigura allegoricamente la partitura andando a definire quei “corpi tematici” (come li definisce Fabrizio Sinisi) sintesi di processi e adattamenti per cui ogni scena o passaggio riverbera di un prima al quale si allude e di un dopo impossibilitato a compiersi. Lavoro compatto, tenuto da scorrerie sonore puntuali a volte con aperture liberatorie, come il “paradossale” karaoke, altre più dense e metafisiche avvertendo la consonanza con le osservazioni di Marta Ciappina per i movimenti da seguire, quando dice: «Cercate uno stato di vacuità che permetta al respiro di spostare, senza sforzo, il peso del corpo». Lavoro in continuità con quella idea di scena espansa dove movimento e corporeità, parola e concrezione sonora vanno a lambire una grammatica spaziale decisamente poetica. Scrive Emmanuel Carrère sulla poesia: «crea cortocircuiti di significato, è la lingua che meglio si addice a un’esperienza non verbale come la meditazione».

Il Ministero della Solitudine

uno spettacolo di lacasadargilla
parole di Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzanino, Francesco Villano
drammaturgia del testo Fabrizio Sinisi
regia Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni
con Caterina Carpio, Tania Garribba, Emiliano Masala, Giulia Mazzanino, Francesco Villano
drammaturgia del movimento Marta Ciappina
cura dei contenuti Maddalena Parise
spazio scenico e paesaggi sonori Alessandro Ferroni
luci Luigi Biondi
costumi Anna Missaglia
aiuto regia Caterina Dazzi
assistente al disegno luci Omar Scala
produzione Emilia-Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale
coproduzione Teatro di Roma-Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con lacasadargilla
con il sostegno di ATCL
si ringrazia per l’ospitalità in residenza Carrozzerie N.O.T.
con la collaborazione di Teatro Asioli-Correggio.

VIE Festival, Teatro Ermanno Fabbri, Vignola (MO), 8 e 9 ottobre 2022.