Ripensare il tempo morto di Carolina Germini

«Non succede niente». Quante volte, osservando un film particolarmente lento, abbiamo espresso questo giudizio? Una sensazione di noia mista a fastidio e il desiderio, nell’attesa, che qualcosa finalmente accada. Ma cos’è quel niente che poco sopportiamo? E soprattutto è giusto definirlo così? Nel cinema quel momento ha un nome preciso: tempo morto. A questo particolare istante il filosofo francese Deleuze ha dedicato molte pagine della sua opera L’immagine-tempo, concepita come secondo volume sul cinema dopo L’immagine-movimento. Capiamo il concetto di tempo morto se prestiamo attenzione a questo passaggio, scandito così bene dai due volumi, ovvero la trasformazione del movimento in tempo, quando l’azione perde il suo primato a favore di un’immagine puramente visiva. Deleuze individua questo radicale cambiamento nel cinema di Antonioni e di Ozu, in cui la natura del tempo morto si manifesta in tutta la sua potenza. Esso non è, come potrebbe sembrare a un primo sguardo, un intervallo tra due eventi. Al contrario è l’Evento stesso, il puro accadere. Nei suoi istanti è condensato il divenire stesso: l’attimo presente, in cui è contemporaneamente contenuto il passato e il futuro. Quello che si presenta, per la sua immobilità o mancanza di azione, solamente come un momento di passaggio, si rivela invece il più significativo.

Immaginando la nostra vita come una pellicola, potremmo dire che questi ultimi due mesi di isolamento, a causa della pandemia, siano stati come un lungo tempo morto, in cui i gesti quotidiani hanno oscurato le azioni di sempre. Il presente è diventato la nostra unica dimensione, inglobando così in sé passato e futuro. Molti riferiscono infatti di aver, in questo lungo periodo, ricordato continuamente episodi dimenticati, che sono riaffiorati improvvisamente.
Se la vita quindi in alcuni momenti ci offre un’esperienza diretta della consistenza del tempo morto, non è altrettanto facile comprenderne il valore esistenziale anche nel cinema. Non è certamente facile affidarsi a quella sospensione, apparentemente inutile, a cui a volte il regista sembra costringerci. Per cogliere l’essenza di quei momenti, possiamo partire dalle osservazioni di Deleuze, soffermarci, insieme a lui, su quelle sequenze cinematografiche che imprigionano il tempo morto. Prendiamo una scena di un film di Antonioni, L’eclisse per esempio. La sequenza con cui  si apre rivela il movimento di tutto il film. La scelta dei tempi e delle inquadrature restituisce la crescente ostilità che la protagonista percepisce nei confronti dell’architettura che vede intorno. Il film si apre quindi con un tempo morto, in cui i protagonisti sembrano imprigionati nelle loro esistenze. In quel vuoto e in quel silenzio però si riflette la scelta di lei di andarsene, di interrompere la relazione.
I tempi morti di Antonioni, come osserva Deleuze, non mostrano semplicemente la banalità della vita quotidiana, ma raccolgono le conseguenze o l’effetto di un avvenimento.

Nel cinema di Antonioni c’è un rapporto strettissimo tra il tempo morto e lo spazio vuoto. I personaggi soffrono dell’assenza di se stessi e sono incapaci di entrare in relazione con l’ambiente. Lo spazio vuoto non fa che riflettere questo senso di abbandono. Un luogo costruito dall’uomo, come l’Eur ne L’eclisse, sembra respingerlo. Nella camminata di Monica Vitti, mentre attraversa le strade deserte dell’Eur, c’è tutta la dilatazione del tempo e il suo incontro con lo spazio. È questo anche il caso del film L’avventura, in cui la ricerca di Anna è contrappuntata dagli spazi disabitati di un paesino dell’entroterra siciliano. La macchina da presa indugia sull’ambiente più che sulle azioni, come accade anche in Professione: reporter.
Il periodo che abbiamo appena vissuto somiglia a un tempo morto anche per il rapporto con gli spazi  vuoti che abbiamo attraversato, e che erano lì a ricordarci la drammaticità della situazione che stavamo affrontando. Se c’è certamente qualcosa di scenografico in una delle tante riprese di Roma deserta negli ultimi mesi, è anche vero che la sua bellezza non fa che rovesciarsi nel suo contrario: l’orrore e lo spavento di quei terribili giorni. Uno spazio vuoto infatti non fa che rimandare all’’assenza di un contenuto possibile.

Se proviamo a rappresentare nello spazio il tempo morto, è come se la storia avesse un andamento orizzontale ed esso fosse una delle tante deviazioni, che rompono la continuità.
Ora noi siamo ancora in quella deviazione, sebbene ci siano già alcuni segni di ripresa, che ci inducono a sperare che l’azione, proprio come quando la aspettiamo durante un film, torni a ripetersi. Oggi, sollevati nel vedere comparire di nuovo i personaggi sulla scena, che lentamente riempiono quegli spazi vuoti della città troppo tempo disabitati, non dobbiamo però dimenticare che il tempo morto non è semplicemente un  tempo sottratto alla storia, non è un inutile scorrere di istanti sullo schermo. È molto più di questo. È la deviazione della linearità, necessaria a comprendere il senso. È l’interruzione di una corsa che avevamo perfino dimenticato fosse nostra.