La resilienza della musica: arte o intrattenimento? di Giulia Chiaraluce

Bandiera creata da Valentina Buson.

La musica si canta sui balconi: inizia così la nuova esperienza culturale italiana per sopravvivere al “nemico invisibile”, il virus che ha stravolto la vita di tutti noi.
Sommersi dal desiderio di abbattere le distanze sociali che scandiscono le nostre giornate, la musica al tempo del Covid-19 si esegue da casa.
Una grande ouverture omaggia la canzone italiana ogni giorno, indipendentemente dalle qualità canore, alle ore 18 circa.
Il repertorio nazionale viene intonato, dalle tante finestre aperte, con la stessa enfasi con la quale si intona un coro in uno stadio: un semplice riflesso emotivo, una reazione che sa di popolare al “punto giusto”, che trasforma l’Italia in una gigantesca arena. Musicalmente parlando, la parentesi dei balconi ha rappresentato un riverbero istintivo, forse poco ragionevole, in collisione – amara – con la diretta della protezione civile, che nel frattempo elencava i numeri dei decessi in aumento: ogni giorno.
Mentre, all’esterno, col sopraggiungere della primavera il cielo è diventato più limpido, le giornate in casa sono diventate sempre meno colorate e le canzoni sui balconi hanno smesso di essere “trasmesse”. I musicisti si sono organizzati in rete nel tentativo di proporre quello che, in condizioni di ordinaria convivenza sociale, si svolge dal vivo, per consuetudine e per ragioni squisitamente estetiche a dispetto della musica acusmatica. I Social vengono invasi da video di musicisti che organizzano sessioni live in streaming; le scuole di formazione musicale si convertono in piattaforme digitali. La televisione e le grandi case discografiche danno vita a eventi solidali. Come non ricordare il concerto Musica che Unisce, trasmesso su Rai Uno, con la partecipazione di tantissimi artisti nostrani? Una serata in compagnia della home music, un progetto utile per raccogliere fondi che ci ha permesso di entrare nelle case dei nostri artisti preferiti ma che, di fondo, lascia dietro di sé un enorme vuoto perché partecipare ad un concerto è tutta un’altra storia. Quando si assiste ad un concerto, con riferimento a tutte le esibizioni dal vivo di oggi, programmate in piccoli club o nei grandi stadi, si è immersi in una realtà parallela. La distanza sociale non può combaciare in alcun modo con la musica, quella con la M maiuscola. La musica è fatta di prove, di condivisione, di emozione, di collaborazione. Lo scambio di idee, l’evoluzione del sound di una band, l’ascolto tra musicisti, la vibrazione delle corde, il colore di timbrico delle orchestre, la partecipazione del pubblico sono e non possono che rimanere le fondamenta della costruzione del discorso musicale visto come ricerca costante.

Foto Twitter, concerto Stereophonics, Kind Tour 2020, Manchester.

Cosa racconta la musica in questo modo/mondo digitale? Può contenere e come il nostro disagio attuale? Quale è il ruolo dell’artista, adesso, con un “verdetto” così soffocante? Certo, la musica si è trovata di fronte ad una sfida inimmaginabile, al pari di qualsiasi altra arte. È costretta a ridisegnare i propri confini e si sta adattando a tutti i nuovi limiti con sforzo lodevole e sincero. Ma è una mutazione spaventosa. In questo momento di confusione, col perdurare di questa parentesi che mostra i limiti dei riferimenti politici e delle certezze scientifiche, ci sentiamo depauperati anche di quel “benessere sociale” che ci circondava senza che ne avessimo una considerazione attiva e perciò percepiamo l’assenza dell’arte.
Si sono spenti gli show, le luci sui palchi, i tormentoni dell’estate e i lustrini accecanti dell’industria dell’intrattenimento: eppure le canzoni potrebbero fiorire con un’energia del tutto diversa e lo faranno! Non sogniamo certo di ascoltare, in eterno, concerti in streaming, di vedere quadri on line o di partecipare ad un home theatre per tutta la vita. Sogniamo, invece, di tornare a condividere le nostre emozioni con coloro che ci sono accanto e che magari le percepiscono in maniera differente ma, vivendole nello stesso istante, ci permettono il confronto e, quindi, di conoscerci meglio, reciprocamente.
Il significato degli spettacoli effimeri, come quelli musicali, del teatro o della danza ma anche il valore dell’arte in sé è nel potere intrinseco di stimolare la condivisione.
Proprio nel corso della stesura di questo articolo è andato in onda, su Rai 3, il Concerto del Primo Maggio; l’assenza di pubblico e l’asprezza di una Festa dei Lavoratori paralizzati dal virus, sottolineano, ai miei occhi e alle mie orecchie, tutti i limiti di questi eventi musicali al tempo del Covid-19. Nonostante l’impegno artistico esperito in ciascuna esibizione la serata proposta non ha avuto nulla a che vedere col “Concertone” nazionale in Piazza San Giovanni. Le performances sono circondate da un silenzio assordante e, per questo, rimangono gelide e incomplete a causa della partecipazione diretta degli spettatori. Le registrazioni da casa di alcuni artisti ci raccontano di pianoforti scordati, strumenti dei quali è impossibile prendersi cura in questo momento privati della professionalità degli accordatori, ennesima maestranza del settore musicale sacrificata alla pandemia.

Nel frattempo, purtroppo, constatiamo, amaramente, che sono mancati quei “grandi” riferimenti artistici dai quali ci si attendeva qualcosa di più e questo rimane un fatto, una riflessione importante. Non abbiamo la necessità di semplici canzoncine di plastica, utili prevalentemente a raccogliere fondi né tantomeno di assistere alle acrobazie culinarie del nostro artista preferito al posto di quelle usuali, virtuosistiche, che usa per la tastiera del basso elettrico o della chitarra. Non percepiamo particolare interesse nel vedere gli artisti postarci le foto delle loro pizze fatte in casa, della pasta cacio e pepe appena preparata, intenti nel riproporre una quantità infinita di cover, quasi sempre le stesse. Abbiamo bisogno dell’Arte e della Musica, di quella traduzione della realtà, unica e visionaria, che sa raccontare attraverso forme, colori, suoni e parole, il quotidiano. La nostra esigenza è avvertire nuovamente che l’artista sia il ponte in grado di connettere le nostre emozioni più profonde alla realtà circostante, ma anche al mondo onirico. L’omologazione agli standard commerciali sta evidenziando, nella saturazione digitale di questi giorni, quanto ci manchi la bellezza nascosta sotto i momenti malinconici di queste giornate tradotti in strofe nuove, o nelle rime di un ritornello di rinascita. Desideriamo artisti che, contemplando l’attuale sofferenza, sappiano restituirla con un abito differente ma autentico. Siamo affamati di un’arte che illumini tutto ciò che non riusciamo, nostro malgrado, a vedere nella penombra di oggi.
Una luce è stata accesa dal più grande narratore musicale del tempo odierno: Bob Dylan che pubblica, il 27 marzo, Murder Must Foul, un viaggio sonoro di oltre 17 minuti che ci riporta ai sogni infranti degli Anni  Sessanta e all’assassinio di J.F. Kennedy: «Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa e che potreste trovare interessante…  Abbiate cura di voi, state attenti e che Dio vi benedica».
Inevitabile alzarsi in piedi e andare verso il giradischi per ascoltare ancora The Times They Are A-Changin’. Sono passati cinquantasei anni dall’uscita di quella canzone, e pensiamo sempre alla stessa cosa: che Dio benedica Bob Dylan.