Due gradinate simmetriche descrivono l’allestimento nella nuova sala del Teatro Franco Parenti. Una piccola cavea che da qualunque posizione favorisce una visibilità senza intralci, a 360 gradi. Intanto la scena, a vista, attende il pubblico che prende posto. Cinque letti disposti a più dislivelli raccontano già di quel che andremo a vedere. Un ospedale? Non proprio. Un luogo di cura? Forse, ma molto sui generis.
Siamo in un centro di salute mentale per minori, a Tel Aviv, e stiamo per assistere alla rinascita di cinque adolescenti diversamente normali ivi ricoverati. Cinque storie, cinque gabbie infernali, cinque corazze erette a proteggere giovani anime scorticate e smarrite.
Ognuna ha la sua pena, la sua lacerazione più o meno profonda, il suo male più o meno oscuro. Ma nessuna è il suo proprio malessere, nessuna coincide e si annulla in esso. Allora anche la diagnosi non sarà il risultato ipotetico di una disamina, ma una tentazione da cui liberarsi. “Non è una diagnosi a definire una persona ma è la persona a definire la diagnosi”. Suona più o meno così la massima del medico psichiatra chiamato a prendersi cura dei giovani pazienti, colui che senza darsi per vinto maturerà la coscienza che non è in grado di salvarli da solo. Per dare un nome al dolore, ai traumi infantili quando non sono soltanto letteratura, alla fobia del contatto, alla rabbia che ti divora, all’euforia fuori luogo (già ma qual è il luogo giusto?), alla volontà di sfida così caparbia che si fa strafottenza, all’identità che ti sfugge, nascosta sotto spoglie che non riconosci, serve il gioco più antico del mondo: serve il teatro.
Il bagaglio di studi non basta e l’esperienza sul campo, unita a una dose di buon senso e umiltà, porterà lo psichiatra a chiedere aiuto a una giovane e brillante insegnante di teatro. E che il gioco abbia inizio.
Chi come me. Il primo gioco proposto ai ragazzi è anche il titolo dello spettacolo che Andrée Ruth Shammah ha diretto a partire dal testo omonimo di Roy Chen, scrittore e drammaturgo israeliano, dal 2007 dramaturg stabile del Teatro Gesher.
Si tratta di un testo a sfondo autobiografico, duro e poetico, caustico e lieve, con momenti di confortante ilarità ampiamente sviluppati dalla regia. Battute come “questo è un manicomio, non è un teatro”, per esempio, pronunciata da un paziente in un moto di ribellione alle regole del gioco, risuonano con tutti i rimandi possibili, fino alla fine.
Perché in quelle mura protette il manicomio pare invece arrivare da fuori, da famiglie fallite e genitori frustrati, anaffettivi, strampalati, padri e madri che si portano appresso la loro bella sportina di incomodi da infiocchettare, nell’illusione di apparire normali.
Ma ce ne fosse uno, in questo viavai di visite e sparizioni, di telefonate, videochiamate, irruzioni improvvise, ce ne fosse uno che non meriterebbe di essere rinchiuso. Si fa per dire, naturalmente, perché si sa, da vicino nessuno è normale e anche se qualcuno in qualche modo ci prova (e ci prova fino a far tenerezza), fa molto bene la regia a zoomare su ciascuno di loro affinché la ferocia o la beata ignoranza che si cela dietro certe buone intenzioni venga fuori in tutta la sua gravità. E se quelle che vediamo sono chiaramente caricature, o probabili proiezioni nemmeno troppo forzate dello sguardo dei figli, quello che resta è un pensiero che scava e risale oltre la punta dell’iceberg ponendosi un bel po’ di domande.
Sul conflitto mai risolto tra generazioni, sulle colpe dei padri scontate dai figli, sull’ingratitudine dei figli che non riconoscono la fragilità dei padri, su tutto l’armamentario di sovrastrutture, rimozioni e vere e proprie menzogne che mettiamo in piedi per salvare il salvabile quando siamo lì lì per affondare.
Vero è che l’amorosa invadenza di padri e madri già ispirava le antiche leggende. Quella attribuita al rabbino ucraino Nachman di Breslov, diciottesimo secolo, racconta di un piccolo principe che si credeva un tacchino. O forse fingeva perché le buone maniere gli andavano strette, fingeva per sottrarsi ai dettami di genitori regali che senza interpellarlo selezionavano al posto suo persino gli amici. Fingeva o faceva sul serio, fatto sta che soltanto l’intervento di un saggio sarebbe riuscito a far tornare principe chi si credeva (o voleva far credere) di essere un tacchino.
Come avvenne il miracolo, lo si racconta nel testo di Chen in cui la leggenda viene di poco rivisitata, generando uno dei momenti più commuoventi dello spettacolo.
Come si guarisce da una dispercezione di sé tale per cui ti comporti come se fossi un leone? E, soprattutto, ti senti davvero un leone o ne hai soltanto indossato la maschera per distinguerti da chi ti vorrebbe diverso, da chi ti reclama ripulita e contenta, confezionata come un regalo da presentare agli invitati, come si conviene a una festa di nozze?
Succede alla piccola Esther quando depone la maschera e ritorna sé stessa. Le è bastato che il medico scegliesse di liberarla rispecchiandosi in lei, ruggisse con lei, diventasse per un attimo egli stesso leone, sublime atto di amore di chi non ti chiede di essere ciò che non sei. “Non c’è bisogno di ruggire: tu sei un leone dentro”. Il pensiero magico offre il suo braccio alla maieutica e il miracolo è finalmente compiuto. Il riconoscimento di sé nel volto dell’altro, la differenza che non fa più paura, l’accettazione senza riserve, l’accoglienza.
A volte basta una fessura nel buio nella quale infilarsi con garbo, per farci brillare. Noi non siamo i nostri demoni.
D’altra parte, si dice a inizio spettacolo, “ogni essere umano ha il suo piccolo reparto psichiatrico”. Ce l’ha l’insegnante quando sta per gettare la spugna, ce l’ha lo stesso psichiatra assediato dai fantasmi dei suoi piccoli pazienti. Uno stato della mente in stand by raccontato come un incubo in una scena sospesa in cui i sensi di colpa e ancor più di impotenza – quelli che tormentano qualunque essere umano in grado di farsi degli scrupoli – hanno la forma di tante dita puntate sul suo corpo inerte, come un’accusa.
È questo il suo più intimo “reparto psichiatrico”, quello che in qualche modo libera il nostro e lo legittima.
Una sorta di manifesto, mi piace pensare, che racconta del senso profondo di questo lavoro. Nel quale molti di noi, chi più e chi meno, potranno sentirsi tirati dentro, non molto dissimili da cinque adorabili adolescenti che stanno imparando a guardare avanti.
Nei ruoli Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani, davvero bravi e ben accordati, forti di un rodaggio che si vede e si sente, supportati da quattro interpreti navigati: Fausto Cabra, subentrato a Paolo Briguglia fino a fine ottobre, dà allo psichiatra buono, un po’ sguarnito, una sincerità del cuore che passa attraverso toni pacati e gesti rassicuranti che si ripetono (la corda immaginaria che cerca un contatto; gli abbracci mimati a preservare la distanza tra i corpi); Silvia Giulia Mendola nei panni dell’insegnante di teatro, si mantiene bene in equilibrio tra l’entusiasmo del neofita persuaso di farcela a cambiar loro la sorte e un malcelato sentimento di resa che arriva come il suo personale smascheramento; a Sara Bertelà e a Pietro Micci, che interpretano tutte le coppie di genitori, spetta un lavoro a dir poco virtuosistico, che gioca su accenti, difetti di pronuncia, costumi e accessori identificativi, perlopiù indossati a vista, creando convenzioni che non è difficile accettare.
Chi come me
di Roy Chen
adattamento, regia e costumi di Andrée Ruth Shammah
traduzione dall’ebraico Shulim Vogelmann
con (in ordine alfabetico) Sara Bertelà, Paolo Briguglia/Fausto Cabra, Elena Lietti/Silvia Giulia Mendola, Pietro Micci
e con Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani
allestimento scenico Polina Adamov
luci Oscar Frosio
musiche di Brahms, Debussy, Vivaldi, Saint-Saëns, Schubert … e Michele Tadini
assistente alla regia Diletta Ferruzzi
assistente allo spettacolo Beatrice Cazzaro
consulenza vocale Francesca Della Monica
direttore dell’allestimento Alberto Accalai
direttore di scena Paolo Roda
elettricista Domenico Ferrari
fonico Marco Introini
sarta Marta Merico
scene costruite da Riccardo Scanarotti – laboratorio del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati da Simona Dondoni – sartoria del Teatro Franco Parenti
gradinate costruite da Pietro Molinaro – Scena4 su progetto di Emanuele Salamanca
produzione Teatro Franco Parenti
in collaborazione con Fondazione Guido Venosta.
Teatro Franco Parenti, Milano, fino al 1° dicembre 2024.