PROFILI: VITE DA VICINO> “Ad Anni 20 raccontiamo la realtà senza filtri” Intervista a Francesca Parisella di Patrizia Vitrugno

Francesca Parisella

Giornalista d’inchiesta e inviata per Rai e Mediaset, oggi Francesca Parisella è alla guida di Anni 20, programma di approfondimento giornalistico che va in onda il giovedì in prima serata su Raidue. Francesca coordina una squadra di inviati sul campo ed è affiancata da ospiti in studio con l’obiettivo, dichiarato, di raccontare la realtà senza filtri. Proprio come è lei: schietta e sincera. La stessa sincerità che diventa commozione al ricordo di un suo maestro, Giovanni Blasi, recentemente scomparso, che ringrazia per averle insegnato non solo un mestiere ma la bellezza del lavoro di squadra perché «i sogni hanno un senso» confessa «e se senti e desideri tanto fare un mestiere perché ti rende felice, allora è quello giusto». 

A marzo il direttore di Raidue, Ludovico Di Meo, dopo l’esperienza di Seconda Linea (il programma d’informazione condotto da Alessandro Giuli e Francesca Fagnani sospeso dopo sole due puntate, ndr) ti ha affidato il compito di riportare l’approfondimento in prime time nella difficile serata del giovedì in cui la concorrenza sia su La7 con Corrado Formigli che su Rete4 con Paolo Del Debbio non manca. Qual è stata la prima cosa che hai pensato quando ti è stato affidato questo compito?

Ho fatto l’inviata per anni e ho subito pensato che mi sarebbe mancato girare il mondo. Dall’altro però che sarebbe stato molto bello costruire un rapporto più diretto con il pubblico grazie alla conduzione. È una bellissima opportunità della quale ringrazio il direttore perché, oltre a scommettere su un programma come questo, che ha un format diverso dai precedenti, ha scommesso anche su di me. Anni 20 è realizzato da una squadra quasi completamente nuova in cui pochissimi avevano già lavorato assieme e il fatto di doverlo fare a distanza non aiuta. Sogno una affollata riunione di redazione che purtroppo ora non è possibile fare per le norme dovute al Covid. È una parte del mio lavoro che mi manca.

La squadra di “Anni 20”

Anni 20 punta su servizi, reportage, interviste e inchieste sui maggiori temi di attualità. Una delle note positive è che riuscite sempre a dar voce alle buone notizie, poco coperte in questo periodo nei programmi di informazione e approfondimento. 

Anni 20 racconta questo nostro decennio complicato ma ricco di tanti spunti e per fortuna anche di buone notizie. Questo periodo ci dà quindi l’occasione di parlare di storie belle che ci aiutano e che ci servono per poter guardare oltre la tristezza e le difficoltà quotidiane. Come per esempio abbiamo fatto nel servizio realizzato dal nostro inviato Marco Piccaluga sul trapianto di trachea eseguito all’ospedale Sant’Andrea di Roma che è stato il primo al mondo effettuato su un paziente post Covid-19. L’uomo trapiantato (Giuseppe Scalisi, 51 anni, siciliano, ndr) è stato da subito in grado di respirare e parlare autonomamente e, dopo un ricovero di tre settimane e un decorso post-operatorio regolare, ha ripreso la sua vita normale, tornando al suo lavoro, alla sua città e soprattutto alla sua passione per il ciclismo. Tant’è che ha raggiunto il nostro inviato in sella alla sua bici. E questo dà tanta speranza, soprattutto in questo periodo.

Anni 20 si è anche occupato della chiusura dei teatri seguendo la manifestazione Bauli in piazza (tenutasi in piazza del Popolo a Roma il 17 aprile scorso, ndr) e ospitando in studio Enrico Brignano: perché è importante far sentire le voci dei lavoratori dello spettacolo?

Quella è stata una puntata a cui tenevamo tantissimo proprio perché è necessario far capire a chi ci guarda che i lavoratori dello spettacolo non sono solo gli artisti che vediamo al cinema o in televisione. Loro ne rappresentano una minima parte. Si tratta di un gruppo di lavoratori che hanno ruoli diversi e ugualmente importanti oltre che indispensabili per realizzare un film, uno spettacolo o una pièce teatrale. Proprio grazie alla presenza di Enrico Brignano in studio abbiamo avuto modo di sottolineare il fatto che chi lavora nel mondo dello spettacolo è un lavoratore a tutti gli effetti. E abbiamo detto di più: è un lavoro necessario non solo alla macchina dello spettacolo e della cultura ma anche per uscire fuori da questo brutto periodo che stiamo attraversando. Adesso che ci sono state le prime aperture, per ripartire davvero e superare questo lungo e difficile anno, le arti in generale saranno fondamentali per sollevarci da questo enorme peso che portiamo sulle spalle e che continueremo, purtroppo, ancora per un po’ a portare. È una professione che non viene ancora valorizzata nel modo giusto ma è un’industria vera e propria. Senza questi lavoratori non è possibile andare in scena perché sono loro i primi ad arrivare sul luogo dell’evento e gli ultimi ad andare via, lavorando tre volte in più rispetto all’artista nel corso della serata. La tragedia è che molti per sopravvivere hanno dovuto cambiare mestiere magari diventando fattorini e consegnando la spesa. Abbiamo raccolto le loro voci in piazza tra cui quella di un lavoratore che ci ha raccontato che non è riuscito neanche a pagare i funerali dei genitori. La situazione è gravissima.

Cosa pensi di queste riaperture?

Credo che abbiano riportato un po’ di ottimismo. Quello che mi auguro però è che non sia un’occasione persa perché sottostimare il problema potrebbe farci fare un passo indietro. Un po’ come è successo per la Sardegna che, da unica zona bianca, è tornata nel giro di pochissimo, in rosso. E questo sarebbe ancora più sconfortante per tutti, oltre che un grosso problema per la nostra economia. Non dobbiamo dimenticare che il nostro Paese a dicembre aveva perso 4 miliardi di ore di lavoro, un numero impossibile da recuperare. Ripartire è fondamentale ma dobbiamo farlo con la massima attenzione e coscienza. A me fa piacere vedere i ristoranti aperti e pieni per la giusta capienza perché questo significa che la gente ha voglia e piacere di aiutare in qualche modo quei settori che sono stati in difficoltà così come è stato bellissimo vedere al cinema Beltrade di Milano le code per una maratona che è iniziata alle sei del mattino. Credo che non sia solo il fascino della sala o il desiderio di tornare a vedere un film al cinema, ma proprio la voglia di sostenere un settore particolarmente danneggiato, di fare la propria parte.

Che rapporto hai col teatro?

Amo moltissimo il teatro perché permette una cosa che la televisione purtroppo non dà cioè togliere quel filtro, che in una sala teatrale non c’è, tra palco e platea. C’è sempre tanto da imparare dal teatro perché è un termometro per capire la nostra realtà. Spero di poterci tornare presto, in sicurezza, perché significherebbe che stiamo andando nella giusta direzione.

Sei una giornalista d’inchiesta e in passato sei stata vittima di un’aggressione avvenuta alla Stazione Termini di Roma mentre eri in collegamento per Matrix: che ricordi hai di quell’episodio? Cosa ti ha lasciato? Il tuo lavoro dopo è cambiato in qualche modo?

Nel corso del mio lavoro mi sono trovata spesso in situazioni anche molto più pericolose e complicate. In quel caso però, sebbene avessi preso, come sempre, tutte le precauzioni necessarie, non mi sarei mai aspettata di subire un’aggressione così violenta e sono rimasta spiazzata. Quando si arriva in un posto per raccontare la realtà dei fatti si cerca anche di parlare con chi potrebbe essere al centro del tuo racconto proprio per far capire quello che sta succedendo. In quel caso mi sono spaventata molto, come dimostrano anche le urla che ho lanciato. Forse però quello che mi ha scosso di più è stato il fatto che mi sono sentita debole. Non mi aspettavo di trovarmi in una situazione di quel genere e per un attimo mi sono sentita fragile cosa che fino a quel momento non mi era mai capitata. È stato complicato affrontare quelle emozioni. Ho fatto molta più fatica a superare quel momento di difficoltà che a tornare sul campo perché poi tornare è stato un po’ come quando rimonti in sella dopo un’incidente, basta fare una prima pedalata e via! Ti confesso che ogni tanto ci torno con il pensiero ma soprattutto per ringraziare il tassista che si è fermato ad aiutarmi perché se non fosse venuto in mio aiuto, oggi racconterei purtroppo una versione molto diversa di quella storia.

Il giornalismo è la tua più grande passione: quando hai capito che sarebbe diventata la tua professione?

Da bambina ho sempre fatto piccoli passi in questa direzione ma forse senza rendermene davvero conto. Poi ho partecipato a una selezione per l’allora RaiDoc, il canale digitale terrestre e satellitare della Rai, perché cercavano un conduttore. È stato in quel momento che ho pensato di testarmi in questo campo e ho avuto la conferma che i sogni hanno un senso. Se senti e desideri tanto fare un mestiere perché ti rende felice, allora è quello giusto. Ed io sono molto felice. Non sempre è stato facile ma anche i percorsi difficili hanno la loro bellezza.

Ci sono dei maestri a cui senti di dover dire grazie?

Ringrazio tantissimo il mio primo direttore, Giovanni Blasi. Ne parlo con un po’ di commozione perché purtroppo è venuto a mancare proprio in questi giorni. Per me è stato un direttore ma anche un po’ un papà perché ha messo in piedi una squadra di giovanissimi insegnando a tutti noi un mestiere ma anche il bello di lavorare in squadra. Ogni tanto aveva un atteggiamento un po’ burbero ma in realtà era di una bontà infinita. Ricordo che mi aveva selezionata come conduttrice di un programma rivolto ai giovani. Quando ci incontrammo gli dissi che non volevo solo ripetere i testi scritti dagli autori, ma volevo partecipare alla scrittura. Lui mi disse: «Benissimo, allora puoi cominciare dalle fotocopie!». E così fu! Ho iniziato davvero dalle fotocopie cioè conducevo il programma, partecipavo alla scrittura dei testi e facevo le fotocopie. Poi ho cominciato a seguire anche il regista nel montaggio e, successivamente, a montare in prima persona. Grazie a lui ho fatto la vera gavetta e di questo gli sarò sempre grata perché mi ha resa indipendente e consapevole di ogni passaggio che porta dall’inizio di un prodotto televisivo alla messa in onda. E poi naturalmente ringrazio l’attuale direttore Ludovico Di Meo che mi ha dato l’opportunità di fare un passo importante nella mia carriera cioè di entrare in studio e di cimentarmi nella conduzione televisiva.

Non solo tv ma anche radio con il programma Radio2 in un’Ora che va in onda su Rai Radiodue il sabato e la domenica dalle 5 alle 6 del mattino: quale caratteristica ami di più del mezzo radiofonico? 

La televisione e la radio sono due grandi passioni che ho sempre cercato di portare avanti contemporaneamente anche con grandi difficoltà perché facendo l’inviata ero spesso fuori Roma. Radio2 in un’Ora è un programma che fa informazione raccontando quello che succede all’estero e il pubblico della radio mi segue tanto in questi viaggi ideali che facciamo al di là dei confini dell’Italia. Quello che amo della radio è che più facilmente rispetto alla tv permette di avere un rapporto di interazione con il pubblico. In radio poi si è un po’ più scanzonati e fortunatamente non essendo nella fascia della radio-visione, è possibile anche giocare un po’ di più con l’immaginazione. Se ci fosse l’immagine sarebbe diverso perché ci riporterebbe subito a una realtà che spesso non è quella che ci aspettiamo. Poi l’orario in cui vado in onda è quello in cui tanta parte dell’Italia si sveglia per iniziare la giornata ma altrettanta va a dormire ed è una fase della mattinata che mi piace tantissimo. Per me è come ritrovarsi con degli amici al bar a fare colazione che però per alcuni segna l’inizio della giornata e per altri la fine. 

Leone e Camilla, dal profilo Instagram di Francesca Parisella

Ami andare in bicicletta e possiedi due cani: Leone e Camilla.

Sì, loro sono il mio prolungamento! Amo trascorrere del tempo insieme e mi accompagnano spessissimo nelle mie commissioni. Ogni tanto li faccio anche lavorare con me perché mi seguono per cercare delle storie. Io vivo ormai da tanto tempo a Roma e amo andare in periferia perché è lì che capisci tante cose. È solo andando sul posto, così come ho sempre fatto da inviata anche in altre città e in altri Paesi, che ci si rende conto della situazione e se l’idea che si ha in partenza è quella reale. Mi è capitato alcune volte di arrivare sul posto per seguire una storia e di vedere che la situazione era diversa. E allora l’ho fatto presente e ho cambiato in corsa perché noi giornalisti abbiamo un ruolo importantissimo in qualsiasi settore ci cimentiamo. Il nostro compito non è assolutamente fare da filtro ma l’esatto contrario. E questa è la missione di Anni 20 che è proprio un programma senza filtri: noi abbiamo il dovere di dare tutti gli elementi di una storia affinché ognuno si possa fare una propria idea di quello che sta accadendo. 

Recentemente hai pubblicato un post su Instagram che cita una bellissima frase di Mark Twain: «Tra venti anni non sarete delusi dalle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Levate dunque l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite». Ci sono state volte in cui non hai mollato l’ancora?

Questa frase ce l’ho molto nel cuore e ogni tanto la rileggo perché è un po’ come dire a me stessa: stai rischiando di non mollare l’ancora in questo momento? Mi è capitato di pensare qualche volta che avrei dovuto abbandonare il porto un po’ prima. Però se non l’ho fatto è stato perché in quel momento non mi sentivo tranquilla nel farlo. Certo, qualche piccolo pentimento ce l’ho però per fortuna è durato poco.

Quali nuovi orizzonti invece speri di esplorare?

Direi che in questo momento sto esplorando un orizzonte che mi piace tantissimo cioè quello della conduzione televisiva. E poi sono così fortunata da farlo in prima serata! Sono assolutamente all’orizzonte giusto e penso che mi piacerebbe molto continuare a navigare su questa rotta.