Peter Brook, l’ultimo abbraccio di Ferruccio Marotti

Foto di Francesco Galli

Forse pensavo che Peter fosse eterno, perché quando il 3 luglio mattina Nina, sua cognata e assistente da quasi cinquant’anni, mi ha scritto «Peter left this world» ho sentito spezzarsi qualcosa dentro di me, una parte profonda del mio mondo si dissolveva. A metà degli anni Cinquanta il suo Titus Andronicus alla Biennale di Venezia, insieme a Filumena Marturano con Titina ed Eduardo De Filippo al Teatro Verdi di Trieste, furono i due spettacoli che illuminarono la mia theatralische Sendung.
Ma il ricordo più bello, non più come spettatore, ma come discepolo e amico, fu a Vence, nel 1960. Peter Brook, allora giovane genio del teatro inglese, presentava al Festival di Cannes il film Moderato Cantabile, uno straordinario, struggente esperimento: dare immagine a una realtà invisibile, a un’esperienza emotiva profonda, breve, unica, e, insieme, alla pena di vivere.
Da quasi due anni io ero a Vence, sulla Costa Azzurra, con Gordon Craig, per fargli da assistente e scrivere un libro su di lui – quel vecchio straordinario artista, allora quasi novantenne, che aveva passato una vita intera inseguendo l’utopia dell’arte del teatro, un teatro di pure forme, movimenti, suoni, in cui non vi è più posto per le debolezze umane dell’attore.
Inaspettatamente, una sera, Peter Brook arrivò da Cannes, al termine della cerimonia di assegnazione della Palma per la miglior attrice a Jeanne Moreau, interprete del suo film, insieme con Natasha, la sua bellissima moglie, con una macchina scoperta e una bottiglia di champagne, per festeggiare con Gordon Craig, il vecchio folle che sognava un teatro diverso.
Fu una notte meravigliosa, con Gordon Craig che non aveva occhi che per Natasha, e Peter che volle sapere tutto di me e della mia folle impresa di fare l’assistente e scrivere un libro su Craig.
Mi colpì, allora, questa singolare compresenza, in lui, di due anime: quella pubblica, professionale, e quella privata, che lo spingeva, a sera inoltrata, a ricercare nel suo eremo silenzioso l’autoescluso, il sognatore utopico di un teatro impossibile ma necessario.
Sotto il cielo stellato, nel giardino della casetta di Craig mi diede il primo insegnamento che ha segnato, nel bene e nel male, la mia “missione teatrale”: la parola magica, nel teatro come nella vita, è la parola “e”, non la parola “o”, Craig e Appia, non Craig o Appia, Stanislavskij e Meyerchol’d, non Stanislavskij o Meyerchol’d, Artaud e Brecht, non Artaud o Brecht.
Fu il primo dei nostri tanti incontri. Andai a Londra a seguire le prove del suo King Lear con Paul Scofield, poi alla Royal Shakespeare Company per le prove di The Tempest con John Gielgud, e lo straordinario Marat-Sade, e poi l’incantevole A Midsummer Night’s Dream. Ricordo Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, con Raf Vallone protagonista, messo in scena a Parigi, con un geniale ribaltamento del finale, e ricerche prive di ogni concessione spettacolare, come il Theatre of Cruelty del Royal Shakespeare Experimental Group. In quell’occasione mi parlò di Jerzy Grotowski e del suo Faust, consigliandomi di andare a vederlo in Polonia, cosa che al momento non riuscii a fare. Per decenni fu il discreto amico e protettore di Grotowski, e quando – con scandalo dell’accademia italiana – all’inizio degli anni Ottanta invitai Grotowski, esule in fuga dal colpo di stato in Polonia, a venire a insegnare al Centro Teatro Ateneo dell’Università di Roma, accolse il mio invito di aiutarlo improvvisando un magico seminario a due sul senso del teatro oggi.
È noto che, pochi anni dopo il ’68, Brook ha abbandonato il successo della Royal Shakespeare Company per creare il CIRT, un proprio gruppo internazionale di ricerca, la cui prima esperienza fu a Persepoli dove mi invitò quando presentò Orghast, una impressionante rivisitazione in una lingua arcaica, inventata da Ted Hughes, dell’Edipo, con Yoshi Oida e Bruce Myers, davanti alla tomba di Ciro il Grande, con lo sconvolgente rullo dei tamburi della milizia dello Scià di Persia.
Poi l’ho seguito nel vecchio teatro delle Bouffes du Nord, un quartiere periferico di immigrati, a Parigi. Qui ha creato con attori di varie parti del mondo spettacoli e “ricerche teatrali” semplici, dirette, che mi rimangono nella memoria come un’emozione profonda, indelebile, da Les Iks a La conference des oiseaux, a L’homme qui, a Oh les beaux jours, a Qui est là, Le grand inquisiteur, Je suis un phénomène, fino a The Valley of Astonishment: sono ricerche teatrali in cui la riflessione sul senso del teatro oggi ha un testo profondo che ci parla del senso della vita e della morte. Perché il teatro è concepito e praticato come una metafora del reale, ma soprattutto perché qui la relazione si ribalta: e l’interrogazione sul fare teatro finisce per configurarsi, e per funzionare come progetto, come disegno del mondo, un mondo in qualche modo altro, parallelo al nostro quotidiano.
Purtroppo, in realtà, in Occidente – spiegava Brook ai miei studenti – a differenza di quanto avviene in Oriente, non esiste una tradizione vivente del teatro che affondi le sue radici nella storia e venga trasmessa attraverso pratiche reali, concrete, personali e interpersonali, e non attraverso la sola codificazione della scrittura drammatica.
Allora la relazione fra l’evento scenico e il fenomeno interumano che è ovunque alla radice dell’evento teatrale, in Occidente va cercata non nella tradizione, ma attraverso la coscienza di un impegno e di un lavoro artigianale.
Ed è la specifica presenza e competenza del fattore artigianale che fa ritrovare quel ponte interrotto che in altre culture è, sia pure ancora per poco, l’elemento vivente della tradizione. Solo attraverso la mediazione della pratica artigianale si può ancora giungere, nel teatro occidentale, a porsi, in teatro, quelle domande che ci si pone quando si partecipa, in altre culture, a un fenomeno interumano tradizionale, o quando ci si occupa della propria solitudine, di quel fenomeno che va sotto il nome di tecniche personali.
La ricerca di una profondità del rapporto interpersonale, nel teatro occidentale, deve insomma passare necessariamente attraverso il canale della coscienza artigianale.
Ma al tempo stesso non si può non riconoscere una singolare complementarità fra la tradizione vivente, interpersonale, cioè il rituale, e l’artigianato dell’attore, la coscienza artificiale del teatro.
Perché il teatro è “spazio vuoto”? Perché lo spazio vuoto è ciò che «consente non solo di percorrere il mondo geografico e storico, ma di passare senza interruzione dal fuori al dentro, dall’universo realistico, oggettivo, ai fatti soggettivi dell’immaginario, dalla temporalità frammentaria del reale alla temporalità fluida della coscienza».
Uno spazio vuoto, dunque, come metafora e immagine del passaggio dall’impulso informe alla forma strutturata dello spettacolo.
Se noi occidentali non abbiamo una tradizione che ci aiuti a trovare una direzione, una linea, un perché alla cerimonia pubblica che si chiama “teatro”, non ci rimane che la “ricerca”. Quando non si ha qualcosa, o ci si rassegna o si ricerca.
E Brook per me è un grande esempio di “non rassegnazione”, di ricerca cosciente, serena, in continuo divenire.
Cosa è dunque, da questo angolo visuale, il fenomeno vivente del teatro?
Nello stupendo seminario che tenne al Centro Teatro Ateneo, all’inizio degli anni Ottanta, ci disse: «Un gruppo di persone si incontra, si riunisce, si prepara e poi incontra un altro gruppo, che non è preparato e viene a vedere: il pubblico. All’inizio sono mille frammenti e la domanda che ciascuno di essi si pone, consciamente o inconsciamente, sia egli attore o spettatore, è “succederà qualcosa?” Se lo spettatore va ancora a teatro è perché continua a farsi questa domanda. Se l’attore si prepara, si impegna, si fa prendere dal panico, è perché continua a farsi la domanda: “succederà qualcosa?”».
Alla fine dello spettacolo, la sola domanda concreta, il solo punto di unione fra l’attore e lo spettatore è quella domanda semplice e concreta: “è successo qualcosa?”
Se la risposta è negativa, i mille frammenti restano individui separati, ciascuno con una sua idea su ciò cui ha assistito. Ma se “è successo qualcosa”, qualcosa di ineffabile, di misterioso, allora si esprime con un “sì” uguale per tutti.
Qualcosa è accaduto. I frammenti si sono trasformati per un attimo in un’unità.
Quale è dunque la natura di questo fenomeno, di questa “fusione”? Cercando una risposta a questo interrogativo si vede come, connesso a questo fenomeno di fusione, di trasformazione di frammenti in unità, vi sia un altro fenomeno di grande rilievo: “un’intensificazione energetica”, un’intensificazione dell’energia collettiva, che produce un ulteriore importante fenomeno: un mutamento “nella qualità della percezione”.
Nel momento in cui i frammenti si uniscono in un circuito unitario, si genera una visione più chiara, una sensibilità più fine, una coscienza più attenta.
Al posto di una tradizione che manca, dunque Brook ha cercato, come punto d’appoggio, come supporto, il “momento teatrale”, quel momento che non è mai due volte lo stesso, perché muta col mutare delle condizioni.
Ma è a partire da qui che nascono le altre domande artigianali: il contenuto, la forma, il senso della forma riferito all’attore, allo spettacolo.
Per Brook, con una metafora che dà sinteticamente il senso del lavoro teatrale – e che ripeté di fronte a un attonito Rettore quando gli abbiamo conferito la laurea honoris causa alla Sapienza – lo spettatore è il fuoco che, nel laboratorio artigianale, trasforma il lavoro di ricerca sul rapporto fra acqua e farina in “pane”. La realtà del teatro, il “pane”, arriva solo con il confronto, l’amalgama fra la “pasta” e il “fuoco”.

Foto di Francesco Galli

E dunque il lavoro artigianale del teatro alterna momenti di laboratorio al confronto con pubblici diversi: ricordo, fra gli altri, un incontro casuale, con Brook e il suo gruppo, nel sud dell’India, in un villaggio sperduto dove mancava qualunque schema intellettuale comune, a partecipare a una festa di teatro di strada.
E incontri simili Brook ha continuato a farli in Africa, in India, e in Europa con gruppi di immigrati, di drogati o di handicappati o di normali borghesi.
Ma il comune denominatore è unico: sono i diversi livelli di contatto fra l’attore e il pubblico. L’attore deve entrare in rapporto con il pubblico al primo livello, come quando si entra in una casa, dal pianterreno. E al pianterreno c’è, insieme all’arte dell’attore, l’arte del narratore/evocatore, che non è pretenziosamente l’attore-mago di tanto teatro e cinema contemporaneo.
Alla vitalità del solo corpo dell’attore, si sostituisce la vitalità del ritmo, dello scambio fra il narratore e il pubblico: lentamente le energie collettive si animano e ci si avvia verso quella fusione fredda, priva di scorie negative, che è ancora oggi il senso ultimo del fare teatro.
In fin dei conti, mi diceva Brook quando ci siamo incontrati a Wroclaw per ricordare insieme Grotowski (e sembra ieri!), si fa teatro per cercare qualcosa di sconosciuto, che è l’essenza profonda della vita umana, quel che, in modo maldestro, perché non l’abbiamo mai vista, per migliaia di anni è stata chiamata l’anima. E con questa immagine abbiamo suggellato ridendo con l’abbraccio di un Maestro a un discepolo, un’amicizia durata più di mezzo secolo.