Di “strani casi” è costellato il territorio dell’immaginario (basta fare un giro sul web per averne conferma fin dai titoli). Ma anche la storia e la cronaca italiane, dunque la realtà, non ce ne risparmiano, e il mondo del cinema non fa eccezione. Qualcuno potrebbe obiettare che in fondo è la vita che va così, che non procede per logica, che è il caso che governa le sorti umane eccetera eccetera. Bene, se siete tra questi, ragione in più per andare a vedere non appena uscirà in sala (ci auguriamo presto) L’occhio della gallina – Autoritratto di Antonietta De Lillo, proiettato nelle Giornate degli Autori – Notti Veneziane alla recente 81ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Per tutti gli altri va da sé: non vi occorre un pretesto per andare.
Riassumiamo il design della storia. Tutto ha inizio nel settembre di venti anni fa. Antonietta De Lillo, dopo un esordio nella fotografia e le prime esperienze sul set come fotografa di scena e assistente operatrice, ha già realizzato un paio di film insieme a Giorgio Magliulo (il primo, Una casa in bilico vince il Nastro d’argento come migliore opera prima), siglato documentari e ritratti-video, diretto uno degli episodi del film I vesuviani, in concorso alla Mostra di Venezia, e un altro film il cui titolo suona quasi come una premonizione (Non è giusto). In quel settembre 2004, dopo un percorso produttivo irto di ostacoli e sbloccato in extremis, la regista torna al Lido per presentare Il resto di niente, un’opera in costume incentrata sulla figura di Eleonora De Fonseca Pimentel – nobildonna, intellettuale e patriota che muore sul patibolo durante la rivoluzione napoletana del 1799 – e tratta dal romanzo omonimo di Enzo Striano del quale De Lillo aveva opzionato i diritti fin dal 1995. L’accoglienza è straordinaria, gli articoli di giornale più che calorosi, gli esercenti entusiasti e perfino il Presidente della Repubblica del tempo Carlo Azeglio Ciampi loda il film. «Funziona tutto», almeno così pare, e però in un attimo «tutto precipita, nel vuoto, nel non-senso».
Il film esce in sala nella metà delle copie previste da contratto, il che significa la quasi invisibilità (non a caso si aggiudica il Ciak d’oro quale Miglior film nella categoria “Bello e invisibile”). De Lillo allora cita in giudizio per cattiva distribuzione la produzione e i distributori, quindi l’Istituto Luce. Questi per tutta risposta la controquerela per diffamazione chiedendole un risarcimento di 250.000 euro.
Comincia un interminabile contenzioso giudiziario che si arricchisce nel frattempo di altri filoni. Gli effetti del gesto dirompente della film-maker, infatti, non tardano a manifestarsi. Senza apparente motivo il Ministero (la Direzione Generale Cinema e Audiovisivo) rinvia, nonostante il punteggio ottenuto, il finanziamento richiesto dalla regista con la casa di produzione fondata nel frattempo, la Marechiaro, per un nuovo lungometraggio di finzione (Morta di soap, dal romanzo di Adele Pandolfi, imperniato – guarda che coincidenza – su un altro “strano caso” legato alla notissima serie tv Un posto al sole).
Tra pronunce, ricorsi e attese le due vicende processuali si chiuderanno l’una nel 2016, l’altra solo nel 2023 (!), dando ragione alla professionista. Il film, o meglio il docu-film, ce ne consegna una ricostruzione meticolosa, senza che mai la visione ne risulti appesantita, in un autoritratto che ha il segno della libertà di inventiva e (di pensiero) che contraddistingue la regista, della sua capacità di andare controcorrente e di opporsi all’ostracismo a cui la condanna il “sistema” con un innato senso del «fare, fare moltissimo» pur continuando a battersi nelle sedi opportune per far valere i suoi diritti.
Scritto dalla stessa De Lillo con Laura Sabatino (e la collaborazione di Alice Mariani), L’occhio della gallina trascorre dalle conversazioni con Maria De Medeiros (interprete della Eleonora de Il resto di niente e a sua volta protagonista di un analogo boicottaggio in patria per il suo Capitani d’aprile, film su un’altra rivoluzione, quella portoghese) e con la già ricordata Adele Pandolfi ai passaggi in cui la regista ripercorre il tortuoso iter processuale con le figlie e i collaboratori più stretti, alle sequenze d’archivio, pubbliche, private, brani di film, spezzoni di backstage e frammenti di home-video, il tutto amalgamato in un fluire caldo e piacevole, mentre la gallina del titolo si incarica di portare su di sé il simbolo con leggerezza e ironia.
Al netto degli eventi narrati (comunque kafkiani, paradossali, che indignano o sconfortano), L’occhio della gallina punta al fulcro emotivo della questione col chiaro intento di ampliare i confini della vicissitudine personale e condividerne il respiro (in linea, del resto, con la poetica della regista: vedi il progetto del film partecipato, da lei lanciato e giunto alla terza edizione). «Ci sono parole» – citiamo a memoria – «che devono cambiare di senso. Potere, per esempio. Possiamo è un’affermazione di vita, di bello, dà il senso del creare, far sorgere qualcosa di nuovo». Il cinema è un atto culturale e sociale. È quello che resta, e non è affatto poco, né tantomeno niente.