LIBERTEATRI > “La cupa” di Mimmo Borrelli in libro di Giorgio Taffon

Nello scorso mese di maggio La nave di Teseo, casa editrice diretta da Elisabetta Sgarbi, nella collana Oceani ha fatto uscire in forma di libro, un volume squisitamente letterario (come tutti quelli appartenenti alla collana), quello che era il copione del bellissimo spettacolo teatrale di Mimmo Borrelli La cupa, accorciato di molto rispetto all’originale. Uno spettacolo da me non visto ancora, per via del blocco dei teatri, e per ragioni distributive a me ignote che hanno limitato il “giro” dello spettacolo. Dico bellissimo in base ai numerosi riscontri della critica e degli spettatori teatrali: a riprova si può leggere, uscita sull’inserto del “Corriere della sera”, La Lettura, il 7 maggio 2023, l’intervista a Borrelli svolta da Franco Cordelli con l’eloquente titolo Il sottosuolo di Napoli sfoga l’urlo dei vinti, pubblicata in vista dell’ospitalità che Il Piccolo di Milano avrebbe offerto di lì a poco alla realizzazione scenica  del regista, drammaturgo, attore, originario della zona dei Campi Flegrei. In essa temi, motivi, esperienze sceniche precedenti (ricordo solo ‘Nzularchia), visioni, poetiche teatrali, vengono esaustivamente esplicitate a seguito degli input offerti dalle domande di uno dei più importanti e intelligenti critici teatrali italiani.
Che chi scrive non abbia ancora visto sulla scena lo spettacolo, a maggior ragione rende opportuna l’attenzione alla “dimensione letteraria del teatro” pienamente riscontrabile nel testo edito dell’opera di Borrelli. Devo anche dire che, a livello personale, sto mettendo a fuoco, sul piano prospettico di forme teatrali culturalmente modellizzanti ed esemplari in rinnovate direzioni, autori, drammaturghi, attori e registi che si esprimono in teatro tramite il verso, la poesia: in particolare mi riferisco a Mariangela Gualtieri, a Enzo Moscato, all’indimenticabile Giuliano Scabia, a Chiara Guidi, a Marco Martinelli ed Ermanna Montanari (e ad altri che qui non cito).
La cupa, quindi, ci viene ora offerta come opera letteraria, dopo la realizzazione scenica, in autonomia, per essere dunque “letta” e non “vista”, a dimostrazione che i testi o copioni scritti dapprima per la scena, possono poi entrare nello spazio letterario tout court. Libro e scena, letteratura e teatro da sempre si sono confrontati, a volte scontrati e divisi, a volte pienamente collaboranti, e quando divengono autonomi possono trovare, nel loro specifico, valori molto alti.
Va detto che nella veste di libro, il testo conserva formalmente alcuni elementi che rinviano a un suo “uso” teatrale, in particolare il radicale di presentazione, cioè l’elemento primario di un testo drammatico, che è il nome del personaggio che parla (e agisce magari solo nell’immaginazione del lettore). Le stesse didascalie, in genere presenti nelle opere di letteratura teatrale, qui sono impiegate al fine di caratterizzare la psicologia dei personaggi, ed eventuali sottotesti che sulla pagina possono sfuggire.
Altro elemento da considerare è la forma di genere dichiarata dall’autore nel sottotitolo: Fabbula di un omo che divinne un albero: e in effetti tale scelta libera l’autore del testo dall’osservanza di un realismo che può ingessare la fantasia: i tempi storici si sovrappongono, creando anacronismi a volte con effetti umoristici ben azzeccati; ma soprattutto sono le invenzioni retoriche, dalle iperboli “incredibili” alle metafore più ardite che spostano i significati su piani inattesi e sorprendenti. Si registra di continuo una tensione espressiva che non si dà limiti nelle scelte lessicali, come ad esempio nelle battute blasfeme, o nelle espressioni da turpiloquio.
A livello linguistico-espressivo Borrelli fa parlare i personaggi con una sorta di pidgin proveniente sia geograficamente che antropologicamente dalla zona dei Campi Flegrei, area di nascita e di vita dell’autore. La mescolanza dialettale rinvia naturalmente anche al napoletano, e molte cadenze riportano ad una vocalità tipica del periodo (siamo nel 1500) in cui nella zona trovarono riparo molti ebrei provenienti dal regno spagnolo. Opportunamente alla fine di ogni sezione (sono 20) viene offerta al lettore la versione in lingua italiana, non avendo, come in teatro, segni ulteriori per la comprensione di quanto viene detto, anche grazie, come direbbe la Gualtieri, a quello che in effetti possiamo definire come “incanto fonico”.
D’altra parte, i personaggi si presentano e vivono grazie ai loro dialoghi, e le azioni vengono in genere più raccontate che svolte (i pochi cardinali sono esplicitate in didascalia); in effetti i personaggi sono piuttosto dei revenants, dei ritornanti nel mondo della vita e quindi raccontano e si raccontano, facilitando un approccio da lettura-letteratura. Il nocciolo della fabula è il dilaniarsi di due famiglie che si contendono i pochi vantaggi delle cave formantesi nello svangare il terreno sulla linea di percorsi incassati (le cupe, appunto) su un terreno fragile, spesso fangoso.
Non mi dilungo qui nello spiegare e sottolineare significati e “morali della favola” (già un ottimo assaggio è presente nell’intervista citata qui più sopra, e nei paratesti del libro curati dall’autore stesso). Mi limito a constatare che Borrelli, come già nel mescolare le varie parlate dialettali qui ricordate, anche sul piano dei registri, fondamentalmente tragici, riecheggia con assoluta originalità ed efficace mescidanza, la tragedia greca, quella shakespeariana, il teatro barocco, Raffaele Viviani autore di testi tipo I pescatori, e anche Giovanni Testori (coi suoi scarrozzanti, il teatro nel teatro, l’intreccio di dialetti e lingua). Nel finale del testo c’è un barlume di speranza per il destino di altre future famiglie, ma di certo è assente un’esplicita e motivata catarsi, in coerenza con la visione nichilistica che fortemente impregna oggi le nostre vite.
Insomma, libro da leggere, a mio parere, senza alcun dubbio.

Mimmo Borrelli, La cupa. Fabbula di un omo che divinne un albero, La nave di Teseo, Milano, 2023, pp. 528, euro 22,00.