La Maladie de la mort: lei è viva di Alice Bertini

Prima di aver assistito allo spettacolo La Maladie de la mort ne avevo letto la sinossi su un programma di sala del teatro Argentina: incuriosita, soprattutto dalla particolare struttura scenica, decisi che sarebbe stato il prossimo spettacolo che avrei voluto recensire.

Katie Mitchell, celebre regista inglese, porta per la prima volta in teatro uno spettacolo interamente in lingua francese. Una rilettura in chiave cinematografica di un racconto di Marguerite Duras, un thriller psicologico a tutti gli effetti che esplora il confronto uomo-donna mantenendolo su una dimensione misteriosa: l’insinuarsi in una relazione inquieta, ambigua, che proietta l’impossibilità di un rapporto autentico, sia esso completo ed emotivo o puramente sessuale. Un uomo attende una donna, probabilmente una prostituta, in una stanza d’albergo. Tra loro un accordo: tutto ciò che lui desidera, lei dovrà fare e per questo riceverà un compenso. L’uomo vuole imparare ad amare, vuole conoscere le conseguenze di un rapporto stabile, abituarsi all’unico corpo di una sola donna, osservandolo e guardandolo dormire, notte dopo notte.

Si consolida così una progressiva intimità tra i due personaggi che arriva al pubblico grazie all’uso di tre telecamere che filmano lo spettacolo, mostrando in presa diretta le circostanze e il vissuto dal solo punto di vista dell’uomo, il suo disagio, le sensazioni di forte ambiguità emotiva, fungendo da strumento di collegamento, inanimato e asettico, tra l’uomo e la donna, simbolo chiave della loro diversità, che rimarrà tale per sempre, nulla potendo avvicinare ed unire il profondo divario che intercorre tra i due.

Senza filtri, un’esplorazione di profondità delle relazioni a due che conduce all’impossibilità di amare autenticamente qualcuno, ovvero, all’essenza di quella “malattia della morte” di cui tratta la Duras.

Seguiamo, avvolti dall’insolita struttura che lo compone, lo spettacolo: una messa in scena apparentemente regolare, una scenografia, attori, un testo. Poi, d’incanto, attori-tecnici iniziano a riprendere scena dopo scena ogni dettaglio, narrandocelo da un grande schermo posizionato al di sopra della scenografia teatrale e creando così un effetto sdoppiante: il giallo ocra dei proiettori teatrali nella parte inferiore, dove si muovono e agiscono gli attori, uno spazio caldo quasi ad indicare la “vita reale in corso”, seguendo i criteri dell’evento teatrale, sopra, invece, una gelida proiezione in bianco e nero di ciò che accade, un vecchio ricordo perduto o intrappolato nel passato. Un film degli anni sessanta di Jean-Luc Godard, a questo ho pensato, primi piani asimmetrici, lunghi piani sequenza, improvvise interruzioni “diapositiva”. E questo bianco e nero con immagini molto suggestive, una versione moderna e depressa del film Fino all’ultimo respiro.

A distrarre, la voce fuori campo di Jasmine Trinca che accompagnava occasionalmente, tra realtà e proiezioni, talune scene dello spettacolo con la lettura di alcuni passi del libro della Duras, peraltro molto intensi e profondi. L’uso monocorde della voce, tuttavia, ha prodotto un effetto contrario a quello desiderato, in alcune scene particolarmente intense, l’improvviso subentrare della voice-over, lenta e morbida, è risultato fuorviante se non addirittura soporifero. Troppo semplice rendere quella lettura così intensa in questo modo, risultando non del tutto dentro alla vicenda. Mi sono chiesta quali potessero essere gli scopi di Katie Mitchell per quell’aggiunta: un tentativo di spiegare più a fondo un concetto o un attaccamento a quelle parole, un’affezione superflua, così forte da non riuscire a farne a meno? Nel tal caso, meglio il secondo, ma non ci ha convinti.

Interessante l’elegante contaminazione teatro – cinema: potremmo dire meglio, interessante osservare il teatro che serve il cinema e viceversa. Molto belli, in questo senso, anche quei momenti nei quali le due forme d’arte hanno parlato al pubblico all’unisono, raccontando e creando qualcosa di davvero speciale. E allora ecco che vengono abbattuti i confini, ecco il teatro, il cinema, la fotografia, l’installazione, il museo, la performance, la lettura, il reale, la pittura che possono essere chiamati unicamente arte.

Non si può non apprezzare questo genere di lavoro o, come sarebbe più appropriato chiamarla, questa artistica provocazione. La struttura narrativa, esaltata dalla continua contaminazione di stili e generi artistici, pronti a supportarsi vicendevolmente per creare qualcosa di irripetibile e vivo.

Per quanto intenso il racconto della Duras, non si può negare che la storia raccontata mancasse un po’ di originalità, risultasse un po’ “già vista”, ma proprio grazie agli strumenti messi in gioco, Katie Mitchell l’ha registicamente trasformata in un racconto inedito e fortemente significativo.

In uscita dal teatro ho percepito che non tutti avessero apprezzato il lavoro, risultato ad alcuni persino noioso.

In Italia, in questo periodo storico particolarmente, non si è abituati all’innovazione. Non si è abituati alla provocazione data dalla struttura perfetta che contiene al suo interno l’imprevedibile. Era bellissimo vedere il lato umano degli attori, circoscritto in quella sovrastruttura perfetta della regia cinematografica-teatrale. La Maladie de la mort è “un film”, ogni sera diverso da se stesso, che cambia non tanto nel macrocosmo bensì nei dettagli, ma anche uno spettacolo pieno di energia e vita, a dispetto del titolo.

Les Bouffes du Nord di Parigi, che ha prodotto lo spettacolo, rappresenta ormai un bacino d’innovazione enorme. Nel lavoro che Les Bouffes porta avanti, si percepisce come ci sia poco interesse al giudizio esterno, al perbenismo borghese e ci sia invece la necessità e la volontà di incidere nell’animo delle persone. C’è sempre una forte determinazione nelle scelte: nello spettacolo in questione, ad esempio, si riscontra un pensiero lineare, chiaro, romantico e drammatico allo stesso tempo.

In conclusione, non si può non sottolineare la grandezza del suo finale. Ci viene mostrato progressivamente un rapporto impossibile, in cui l’uomo non riesce a provare niente, non riesce ad amare e per questo è un morto, perché non sa amare e mai potrà farlo. Al contrario in questa funzione mortale della mancanza d’amore, lei, invece, è viva, prova amore e questo forse, la conduce lontana da quella stanza d’albergo, alla fine del loro contratto. Salvata dalla sua capacità di amare che la rende libera.

Uno spettacolo deciso che genera un cambiamento, un pensiero, un turbamento. Come un viaggio.

 

La Maladie de la mort

liberamente tratto dal racconto di Marguerite Duras

regia Katie Mitchell

adattamento Alice Birch

con Laetitia Dosh, Nick Fletcher, Jasmine Trinca

regia associata Lily Mcleish

realizzazione video Grant Gee

scene e costumi Alex Eals

musiche Paul Clark

suono Donato Wharton

video Ingi Bekk

luci Anthony Daran

regista assistente Bérénie Collet

direttore tecnico John Carroll

operatore telecamera Nadja Kruger, Sebastian Pircher

trouble shooter Matthew Evans

operatore boom Joshua Trepte

operatore suono Harry Johnson

foto di scena Stephen Cummiskey

Teatro Argentina, Roma, 8-9 novembre 2018.