Innescare la miccia per dare luogo a processi di co-creazione Intervista al duo VestAndPage di Letizia Bernazza

Foto di Alexander Harbaugh

Giunto alla settima edizione, torna dal 24 aprile al 7 maggio alla Cittadella dei Giovani di Aosta il T*Danse – Danse et Technologie – Festival Internazionale della Nuova Danza di Aosta, diretto da Marco Chenevier e Francesca Fini.
T*Danse è divenuto negli anni un importante punto di riferimento della danza contemporanea internazionale e costituisce un “esemplare” unico nel territorio della Valle d’Aosta. Il progetto artistico, a cura del Teatro Instabile di Aosta (TiDA) in collaborazione con la Cittadella dei Giovani di Aosta, fa parte della rete Tracce che riceve il contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “ART~WAVES. Per la creatività, dall’idea alla scena” ed è realizzato grazie al sostegno del Consiglio regionale della Valle d’Aosta e del Comune di Aosta.
Augurandoci che anche quest’anno il Festival possa ricevere la stessa adesione di pubblico, artisti, operatori delle scorse edizioni, abbiamo conversato con l’artista e scrittore veneziano Andrea Pagnes il quale, insieme all’artista tedesca Verena Stenke, è l’anima del collettivo VestAndPage a cui sarà dedicata una personale con tre performance – You Shall Say It il 3 maggio, 1 9 Monolgue il 5 maggio, Lost Matter il 6 maggio – e un talk (sempre il 6 maggio).

«Per VestAndPage, l’arte della performance è una celebrazione della vita, un’urgenza, un’attività che riordina, traduce e trasmette quello che si manifesta nell’esperienza percettiva o vissuta». Cosa significa tutto questo per la vostra ricerca artistica e performativa? 

Siamo soliti partire da quelle che sono le nostre esperienze personali, quelle vissute, e le consideriamo materiale primario della nostra ricerca artistica. Da quello che è un vissuto cerchiamo poi di capire come arrivare a una concettualizzazione e quindi come poterlo trasferire in un’operazione artistica dal senso più universale. Parliamo della nostra esperienza personale perché non ci azzarderemmo mai a parlare dell’esperienza altrui, per noi sarebbe come speculare. Considerando, invece, il nostro corpo e il nostro vissuto il materiale primario delle nostre operazioni artistiche sappiamo che possiamo lavorare con una certa autenticità e oggettività. Da lì interviene un’operazione metaforica o, piuttosto, immaginifica, per trascendere ciò che è personale e arrivare a una espressione che possa coinvolgere di più lo spettatore, il quale potrebbe aver vissuto delle esperienze simili. A T*Danse porteremo per esempio 1 9 Monologue, che nasce dall’esperienza di Verena (Stenke, ndr): poco prima dello scoppio della pandemia di Covid-19 scoprì di aver contratto la tubercolosi. Quando Verena è guarita abbiamo pensato allora di creare un lavoro che potesse parlare non tanto solo del suo vissuto, ma di che cosa significhi essere un corpo abitato da agenti patogeni che sensorialmente non riconosciamo se non nel momento in cui questi affiorano in superficie causando un cambiamento, anche molto doloroso, all’interno del nostro corpo. Abbiamo progettato la performance proprio in un momento in cui tutto il mondo era in preda al timore di che cosa il Covid potesse portare e tutti abbiamo visto quanto doloroso sia stato per tantissime famiglie. Istituiamo quindi una specie di parallelismo con l’epidemia più devastante al mondo, tuttora esistente anche se in tanti pensano che sia scomparsa (ricordiamoci invece che fa ancora quasi 10milioni di vittime all’anno), per parlare quindi di questi tempi in cui le nostre generazioni si sono trovate a combattere contro un nemico invisibile.

Foto di Francesco Prandoni

Cosa vi ha spinto a partecipare al festival T*Danse – Danse et Technologie – Festival Internazionale della Nuova Danza di Aosta, diretto da Marco Chenevier e Francesca Fini? 

Innanzitutto, il fatto che ci abbia chiamato Francesca Fini, che è una carissima amica e un’artista che stimiamo moltissimo. Ci conosciamo da parecchio tempo. Abbiamo anche collaborato insieme ultimamente, invitandola a partecipare al nostro ultimo film. Poi, il fatto che vi abbiano partecipato in passato anche artisti come Paul Carter e Alexandra Zierle. E, infine, perché ad Aosta non ci sono mai stato! Sono mesi ormai che lo staff cerca di organizzare la nostra presenza come meglio è possibile e non potevamo quindi dire di no. Coincidenza vuole, inoltre, che il giorno in cui finiamo di lavorare a T*Danse saremo a Biella per insegnare in Accademia UNIDEE, non così lontano da Aosta. Il nostro lavoro è “performare”: quando abbiamo ricevuto la telefonata di Francesca ci siamo detti che non potevamo non accettare l’invito, perché in Italia non ci capita così spesso di farlo, nonostante dal 2012 curiamo la Venice International Performance Art Week. Normalmente performiamo di più all’estero che non in Italia. Quindi, per me, italiano espatriato, venire a performare in Italia è sempre una cosa bellissima. E vedere posti dell’Italia che non ho mai visto prima lo è ancora di più.

“Possibilità” e “relazioni”: cosa imprimete nelle vostre performance per far sì che il risultato sia di trasmettere “fiducia” e opportunità “d’incontro con l’altro da sé in spazi liminali”?

Essendo in due il nostro è sempre stato un lavoro molto collaborativo. Io e Verena stiamo insieme sia nella vita che nell’arte dal 2006. Abbiamo cominciato costruendo dei lavori senza un protagonista, e in cui il protagonista fosse il rapporto tra due polarità. Sosteniamo un pensiero per cui tutto è molto interconnesso, in qualche modo c’è una green ecology di rapporti, attitudini, di approcci alle cose e alle persone. Per questo, cerchiamo di esprimere attraverso la performance la poetica della relazione e dell’incontro. Pensiamo che la vita sia l’arte dell’incontro e la performance sia qualcosa di ancora più forte, l’arte dal vivo che consente ai corpi di incontrarsi, di essere presenti l’uno con l’altro, un concetto che la performance esprime ed espande. Anche perché molte performance che facciamo sono partecipative, altre sono interattive: il pubblico partecipa con noi alla performance, come in Lost Matter – che sarà in programma come 1 9 Monologue a T*Danse – un lavoro per una persona alla volta che viene costruito insieme a colui o a colei che entra nella stanza. È più la relazione in sé a esprimersi che non l’esposizione del performer che ti mostra qualcosa. Quello che performiamo è, insomma, un pretesto per accedere a una dimensione più profonda, più importante, che è quella dell’incontro fra persone e persone, ma anche con oggetti, paesaggi, o la natura stessa quando lavoriamo con progetti site-specific.

Lavorate a livello internazionale nella performance art, nella scrittura, nell’editoria e con progetti di comunità artistiche temporanee, che condividono la vostra metodologia in corsi di perfezionamento che tenete in tutto il mondo. Cosa significa per voi e per le comunità a cui vi rivolgete?

Per noi creare un momento o una situazione in cui lo stare insieme, non solo la scambio di informazioni, ma un momento in cui si attiva un processo di co-creazione in cui ognuno ispira l’altro a fare qualcosa e non c’è in questo senso una gerarchia di rapporti, è molto importante. Anche se, ovviamente, io e Verena abbiamo una responsabilità nell’organizzare queste cose: siamo quelli che innescano la miccia che dà luogo a processi di co-creazione che non sono soltanto artistici, ma talvolta sono anche sociali. Ti faccio un esempio. Una volta abbiamo tenuto un laboratorio per un mese a Mexico City, con ragazzi che venivano dalla strada e ricoverati in un centro di accoglienza. Abbiamo lavorato in quel contesto raccogliendo le loro storie di vita da trasformare in performance, coadiuvati dal sostegno di psicologi da cui erano seguiti da tempo. Siamo poi riusciti a far sì che da quella esperienza venisse fuori un libro, e che una fondazione si facesse carico di costruire un centro d’accoglienza dignitoso per ospitare ancora più ragazzi. Questo è un po’ quello che cerchiamo di fare. Già il fatto di poter condividere e attuare qualcosa non solo con una comunità di artisti ma anche con una comunità di non artisti per noi è molto importante. Entrambi, io e Verena, veniamo dal teatro sociale, abbiamo lavorato con performer e non performer, persone disabili o provenienti da situazioni di carcere. Io stesso ho una provenienza abbastanza delicata, avendo anche fatto una riabilitazione quando ero giovane, per motivi di tossicodipendenza, e perciò si tratta di cose che mi stanno moltissimo a cuore. Così come mi sta a cuore il fatto di poter, non dico tanto – perché è una parola grossa – “salvare” vite umane, ma dare speranza alle persone, questo sì, e lo stesso ad artisti e performer giovani. Io mi reputo veramente fortunato. Ho avuto e ho un sacco di opportunità. Ma ho anche la mia età, ormai, e vedo che più si va avanti e meno opportunità ci sono per i giovani. Anche all’interno delle accademie vedo che alla fine del corso di studi i ragazzi e le ragazze vengono un po’ abbandonati a sé stessi e a sé stesse. In un mondo che è sempre più competitivo e complesso, e dove ci sono anche sempre più pressioni, diventa difficile per loro trovare le traiettorie giuste da percorrere. Quando abbiamo la possibilità di mettere a disposizione il nostro know-how e di organizzare situazioni stimolanti, proprio come fa T*Danse, per noi è sempre qualcosa di meraviglioso.

Per tutte le informazioni sul T*Danse di Aosta (24 aprile-7 maggio 2023) si veda il sito:

https://tdanse.net/