“Go Figure” di Sharon Fridman di Paolo Ruffini

Foto di Giuseppe Follacchio

Go Figure di Sharon Fridman è approdato il 14 marzo scorso al Teatro Palladium nell’ambito di Vertigine, la stagione realizzata dal Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita | Spellbound, riscuotendo anche a Roma un successo emozionante e persino sbilanciato su di un crinale da tifoseria, lo stesso che ha accompagnato lo spettacolo nei mesi passati. Giustamente. E cos’è che determina questa specifica attenzione per un lavoro costruito con una drammaturgia di corpi (apparentemente) così lineare e formalmente immediata? Proviamo a fare delle ipotesi, al di là dell’intrinseca e carismatica bellezza che il groviglio dei due performer riescono a costruire e a condurre in un sillabario visivo-gestuale tra macchina e metafora, tra possibilità e impossibilità dell’accadere. Come nei 4/4 del tempo musicale, struttura dove in ogni battuta della musica ci sono quattro battiti o tempi e ognuno di questi ha la stessa importanza, lo stesso peso semantico, che con regolarità e linearità (appunto) conduce il suono in una progressione (apparentemente) prevedibile ma, con impennate improvvise può deragliare, sfrondare l’armonia proposta per poi tornare sui binari impostati fino a conclusione del brano, una ballad con ritmi più o meno ascrivibili al genere (musicale) che si vuole assecondare; ebbene, allo stesso modo Go Figure fa muovere i due protagonisti con progressioni dichiarate in un viluppo fisico e percettivo che rasenta l’emozionale (persino l’erotico) dove l’uno diviene parte dell’altro, l’altro che perde terreno ma acquista una interlocuzione speciale, a suo modo unica, guadagna un sapersi definire nell’opera attraverso una certa verbalizzazione fisica dell’altro e che il proprio corpo non avrebbe altrimenti, e viceversa. In musica l’ascolto dei 4/4 si dirada, sembra effettuarsi con timbriche ritornanti e picchi strumentali di raccordo, così in questo spettacolo l’azione avanza in un refrain circolare del movimento, sempre uguale e sempre diverso, costruendo un reticolo di intuizioni che restituiscono allo spettatore la sintassi non scontata della coreografia perché sempre in bilico di quella possibilità e impossibilità dell’accadere. Nella penombra dello spazio scenico, aumentata da una coltre di fumo poco prima liberata tanto da raffigurare una dimensione impalpabile benché decisamente corporea, uno scooter per diversamente abili è lo strumento, il disinnesco, la chiave di volta che “raccoglie” e fa dialogare il corpo di Tomer Navot, danzatore di Vertigo Dance Company, e quello di Shmuel Dvir Cohen, affetto da una sindrome neurologica che condiziona il controllo della sua muscolatura in quei movimenti involontari.

Foto di Giuseppe Follacchio

Per il coreografo israeliano residente in Spagna il piano simpatetico tra l’uno e l’altro sembra mostrarci una sua “ossessione”, un cruccio nel definire le potenzialità inedite del lavoro tra i due, provando a individuare il punctum del  luogo percettivo, il particolare su cui si focalizza la nostra attenzione e in cui si genera il senso, direbbe Roland Barthes, in quell’avvicendarsi di movimenti e dilatazioni espressive dove nervatura e articolazioni si innestano dall’uno nell’altro, si ridefiniscono nelle pieghe e nelle propaggini muscolari, tanto da proiettarsi in piroette sul posto (mentre lo scooter continua l’andamento circolare e “monocorde”) con poetici avvicendamenti di ruolo, quasi un possedersi nella temperatura propria dell’atto amoroso nell’afflato gioioso, nel respiro corto, nel respingimento attrattivo, nella resa al piacere, dando forma all’uno nei due. Sono rare quelle folgorazioni in cui lo sguardo sul mondo, un mondo non conforme per condizione o differenza fisica o per scelte personali, si fa corpo-agente; non guardare o parlare “di” ma farsi strumento “di” in quanto parte “di” (in letteratura folgorante ne è l’esempio di Édouard Louis), ovvero dal di dentro saper recuperare trame d’esistenza capaci di dare voce a chi non ne ha, a chi per afonie o disturbi sociali (l’altro per colore della pelle, per cultura religiosa, per definizioni sessuali imposte, per corporeità difformi) rimane escluso, provando ad inventare un’altra possibilità, un’altra ipotesi, come i due performer propongono di fare.

Foto di Giuseppe Follacchio

Come scrive Emanuele Trevi, «Solo ciò che accade due volte possiede un significato magico e arcano» (La casa del mago, Ponte alle Grazie, Milano 2023, p. 31), e quei corpi che agiscono movimenti che tornano su loro stessi in ripetizione centellinata, orchestrando intrecci e sbilanciamenti che confinano con l’acrobazia, hanno il sapore di finestre sull’arcano. Nello scrutarsi a vicenda, nel possedersi con levigata intenzione, sono smisurate le raffigurazioni che vanno a compiersi, lì sullo scooter e attraverso di esso, con le stampelle per l’uno e per l’altro come nuove appendici o parapendii che in quella micro-metratura assurgono a viaggi nella bellezza del gesto abiurando confini e codici, e che Fridman mutua dalla sua tecnica INA Practice ispirata dalla madre nata con la sindrome di Arnold-Chiari, per sperimentare ulteriori possibilità di contatto e ausilio reciproco dei e nei corpi.