“Black Star”, il potere senza volto della violenza di Paolo Ruffini

Foto di Alice Durigatto

Debutto al Teatro Palamostre di Udine dello spettacolo Black Star, architettura scenica fatta di ibridazioni linguistiche, drammaturgia sconfinante ed epilessie visive, materie dove va a depositarsi con riprovata autorevolezza l’intuizione di un Fabrizio Arcuri sempre più a suo agio nella concept opera rock, qui coadiuvato dalla felice penna di Fabrizio Sinisi. La relazione tra i due è scintillante. Il regista “compositore” regola i registri dell’interpretazione negli attori e nelle attrici, ne affina quella certa naturalità auto-depistante che li rende credibili proprio in quella loro ironia sottesa nel gesto e nel senso delle azioni che vanno a compiere, nonostante facciano sospettare di non voler credere fino in fondo a quello che stanno dicendo o facendo, innescando così nello spettatore il lecito dubbio se quella sia l’unica versione dei fatti e quale sia la temperatura nel confutare tragedia, paradosso e scherno offerti dai plot che prendono corpo; in un sistema di parola-corpo delle diverse storie che si innervano l’una nell’altra. Il drammaturgo è autore ormai giustamente acclamato che, con la sua misurata dose di osservanza e altrettanta irriverenza quale espediente poetico dai testi di riferimento, decompone e assembla con maestria partiture per giungere a una originale scrittura che non è soltanto della scrittura in quanto tale ma appare come fraseggi comportamentali che vanno a incunearsi nel corpo stesso degli interpreti a partire già sulla carta.

Foto di Alice Durigatto

Black Star  conferma l’attitudine di Sinisi a questa impronta generatrice di una scrittura scandita da descrizioni che rasenta l’impersonale, così evocativa nella sua bellezza del graffio latente alla Annie Ernaux, una levigazione del parlato che il regista rende “documento”, tesi per lo spettatore, in quella forma autoriale che lo contraddistingue ormai da anni, una sorta di “logo d’autore” nel definire gli equilibri tra testo, azione e immaginari, capace così di plasmare i suoi interpreti con mano precisa, sempre in sottrazione. Interpreti che si riferiscono allo spettatore quasi per convincerlo della tesi (appunto) di cui si faranno portatori. Il contesto urbano nel quale si muovono avverte una certa tensione dell’accadere, qualcosa di inesprimibile ma percepibile come stato d’animo di uno stare in costante allerta che si “consegna” in scena, ne caratterizza l’allure catastrofica. Si dipanano col passare del tempo tutti gli elementi che scrittura e regia imbastiscono con precisione “sociologica”, al di là dell’appartenenza sociale o ad una precisa generazione dei personaggi, la logica chirurgica che va a decriptare le personalità di questi uomini e queste donne (e i loro intrecci fortuiti) non lascia spazio a una qualche deviazione “morale”, tipico vizio borghese del voler leggere questa epoca (di questo millennio) con auto-riferito compiacimento, ma fa esplodere le contraddizioni laddove perbenismo impegnato e cinismo populista s’accartocciano.

Foto di Alice Durigatto

I quattro episodi inanellati così da far convergere microstorie in “assoli” apparentemente più liberatori, tracciano un “discorso” ad un livello meno apparente, sotteso, è il trait d’union che la figura del personaggio di Grock, un Fool contemporaneo, per certi versi fantasmatico, dramatis personae scespiriano qui nel “ruolo” di collante che raccorda le diverse vicende, tutte disegnate sul crinale del conflitto: una donna di mezz’età che prende una sbandata per un giovane nero habitué della strada (Grock, per l’appunto), un episodio di cronaca violenta, il frantumarsi del moderato andamento di una coppia  da enclave borghese e uno scontro razziale (necessità del nemico, lo straniero come pericolo, così da indicare un posizionamento in termini decoloniali) distribuiscono dolore, tradimenti dei propri ideali e ripercussioni emotive dove l’esacerbazione sociale e l’approssimazione politica sono lo specchio di un adesso fin troppo vero. Black Star è la resa all’evidenza di una imperturbabile violenza del potere, nelle sue manifestazioni meno eclatanti: potere soggettivo dell’uno sull’altro, potere dello Stato, il potere economico, il potere della persuasione, quello della Polizia.

Foto di Alice Durigatto

«L’irruzione della vittima nello spazio pubblico è un fenomeno recente che, secondo congiunture storiche diverse e linee alla fine convergenti, si precisa dalla metà del secolo scorso. Nel passato la vittima non appariva in sé interessante; la sua sofferenza, il suo trauma, le ferite passavano in genere sotto silenzio e non avevano in nessun modo un significato pari a quello della violenza perpetrata così sulla comunità. Il crimine doveva essere combattuto. Non tanto perché faceva torto alla vittima, quanto perché pregiudicava l’ordine» (1). Torna utile questa riflessione della filosofa Donatella Di Cesare nel crinale ambiguo di un Occidente eroso dai propri pregiudizi (“ambiguo”, ovvero termine sottolineato nelle note del programma di sala dello spettacolo per via dell’imprevedibilità della verità in un dispositivo cruento dove credere ad un accadimento può voler significare renderlo di fatto, possibile), nell’imperituro ordine conservatore delle cose (e del potere) in cui vittima, violenza presunta e quella realmente agìta si traducono in una scrittura scenica di grande respiro, resa opera sedimentata nella temperatura di un momento storico smemorato da una regia perfetta, volumetrica. Il rimando dichiarato al Tito Andronico seppure non recuperato, se non come un’eco, ci riporta a una tragedia dove tutto accade fuori scena e noi testimoni non abbiamo strumenti di giudizio né certezze etiche, oltre l’abisso della sorte con la quale confrontarci. Lo spettacolo spalanca squarci di irruenza rock (con un musicista iperbolico dal vivo) e finestre scenografiche imprevedibili (bagliori persino da avanspettacolo o memori di un costruttivismo alla Malevich) per poi inabissarsi in asfissianti stanze da dramma moderno, con interventi cantati di grande spessore emozionale; gli interpreti hanno un carico di responsabilità nel gestire dialoghi sul filo di spirali introspettive, sentimentali, e allo stesso tempo si abbandonano in divertite (e divertenti) auto-sottrazioni dal giogo teatrale. La tragedia ci segnala l’impossibilità di governare lo spazio e il tempo oltre noi stessi, la “coloritura” da dramma sta lì, invece, ad indicarci una prossimità delle parole e delle forme che dovrebbero responsabilizzarci, anzi potenzialmente catartiche. Attori in grande forma, perfettamente calati in uno spettacolo che depotenzia l’idea stessa di comunità, il suo mito, rivendicandone l’urgenza.

Nota
1) Donatella Di Cesare, Il complotto al potere, Einaudi, Torino, 2021, pp. 83-84.

Black Star

di Fabrizio Sinisi
regia e luci Fabrizio Arcuri
con Gabriele Benedetti, Martin Chishimba, Michele Guidi, Aglaia Mora, Maria Roveran
musiche composte ed eseguite dal vivo da Giulio Ragno Favero
scene e costumi Luigina Tusini
video Renzo Carbonera
macchinista Mario Iob
datore luci Maurizio Tell
una co-produzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa.
Teatro Palamostre, Udine, 23 e 24 novembre 2023.

Prossima data:
Teatro Fabbricone/Teatro Metastasio, Prato, dal 7 al 10 dicembre 2023.