“Una cosa enorme”: poetica del non desiderio di maternità di Renata Savo

Foto di Manuela Giusto

A pochi giorni dalla Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne in cui l’Italia ha i riflettori puntati sull’omicidio di Giulia Cecchettin, più di una foto fa capolino tra le altre che incorniciano il sorriso della giovane ventiduenne: quelle che la ritraggono rannicchiata fra le braccia di sua madre. Che un genitore muoia rappresenta un fatto naturale, inevitabile, sebbene continui a sconvolgerci, ma che accada a una figlia, per giunta a causa di mani violente che appartengono a un uomo che diceva di amarla, è quanto di più innaturale si possa immaginare, fonte di incommensurabile dolore per un genitore. Mettere al mondo un figlio implica la convivenza, per tutta la vita, con una paura, quella di perderlo. Prima di esporsi a questo rischio, al via una serie di domande. In testa a tutte, al costo di quali sacrifici e responsabilità decidiamo di essere genitori? Ci piace fantasticare e pensare che la maternità e questo timore che inibisce qualsiasi desiderio si facciano compagnia a vicenda sin dalla notte dei tempi e che nonostante questo la natura, a un certo punto, liberi delle endorfine tali da fare magie e infondere fiducia negli esseri umani; eppure, oggi ci sarebbero più motivi per non mettere al mondo un figlio piuttosto che il contrario. Ci sono Domande (con la “D” maiuscola, appunto) alle quali è doloroso trovare una risposta, come “in quale mondo nascerà? Un pianeta dall’aria malsana, le temperature che superano i 40 gradi e in cui scoppiano guerre ogni giorno?”; e poi ci sono le domande individuali, le più intime e introspettive: “ma io desidero davvero avere figli? Sono disposta a cedere una parte di me?”. E soprattutto, “e se la maternità di cui io non sento il bisogno di realizzare si esprimesse sotto altre forme?”. A ben vedere, la maternità si dimostra equivalente a un’altra forma di – non innata, bensì ineluttabile – predisposizione alla cura dell’altro, un altro che non può più prendersi cura di se stesso.

Foto di Manuela Giusto

Dà voce a questo pensiero lo spettacolo, meraviglioso nella sua asciuttezza, Una cosa enorme della regista Fabiana Iacozzilli, con Marta Meneghetti e Roberto Montosi, andato in scena al Teatro Vascello dal 10 al 12 novembre per il Romaeuropa Festival, secondo capitolo della Trilogia del Vento. Se il primo, La classe, scava nel passato, e il terzo, Il grande vuoto, in qualche modo guarda a una futuribile terza età, Una cosa enorme rappresenta in modo semplice ma lampante un’altra fase della vita, coincidente più o meno con l’età attuale della regista, ovvero quella fase della vita in cui l’orologio biologico batte il tempo sulle pareti della nostra esistenza, spingendoci a interrogarci sull’importante decisione: ascoltarlo oppure beatamente ignorarlo. Tra le due opzioni, Iacozzilli sembra rispondere con l’immagine paradossale e metafisica di un mistero incredibile: la vita che ci obbliga a fronteggiare una situazione analoga alla maternità stessa, nel momento in cui esercitiamo il nostro essere figli attraverso l’assistenza a un genitore non più autonomo, ritrovandoci, nostro malgrado, madri e padri dei nostri genitori. A nascere contro ogni desiderio, da un ventre gigantesco (opera inconfondibile della scenografa Fiammetta Mandich, già autrice dei fantastici puppets de La classe) un uomo non più giovane che piange, sporca dappertutto, richiede attenzioni continue.

Foto di Manuela Giusto

Sarebbe uno spreco raccontare per filo e per segno lo spettacolo (che assolutamente merita la visione), basato su una scrittura scenica quasi beckettiana, una partitura ristretta di azioni. Ci basti dire che Fabiana Iacozzilli, dapprima con visioni conturbanti e oniriche, poi con frammenti verosimili di vita quotidiana, riesce a commuovere con la poesia della semplicità, dando voce – letteralmente e metaforicamente – a madri e non madri, figli di oggi e figli di domani. «Non ce la faccio più», forse l’unica battuta del testo drammaturgico, è il grido di una generazione fragile e precaria – soprattutto di figli unici – destinata ad assumere sulle proprie spalle, in mezzo ad altre mille difficoltà, la responsabilità, uterina al di là dei sessi, di una cosa enorme.