
Lunedì 7 luglio, il festival multidisciplinare Sempre più Fuori, giunto alla sua quinta edizione, ha inaugurato un programma denso di contaminazioni contemporanee e gesti inclusivi, sia socialmente che artisticamente, – dalle audiodescrizioni poetiche alla lingua dei segni, dall’uso di soprattitoli alle performance multisensoriali.
Il festival abita, trasforma e contamina tante località cittadine: l’Accademia Tedesca Roma Villa Massimo, il Goethe-Institut Rom, il Cimitero Monumentale del Verano e il Policlinico Umberto I. Questo nomadismo culturale, che animerà la comunità romana fino al prossimo 18 luglio, è un invito dei direttori artistici, Antonino Pirillo e Giorgio Andriani, a uscire non solo fuori, ma a osare di vivere e concepire lo spazio urbano come scenario della scoperta artistica durante il tempo trasformativo della festa.
Il tempo della festa è anche il tempo della resistenza. Mentre Sempre più Fuori inaugurava la prima giornata di festival, l’Assemblea de *lavorat* dello spettacolo, coordinandosi a livello nazionale con numerose realtà militanti del mondo della cultura, ha convocato per lo stesso 7 luglio un’assemblea nazionale online e in presenza in molte città italiane per discutere del disastro culturale causato al settore dalla ripartizione del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo (FNSV) per il prossimo triennio.
Si tratta di fondi assegnati dal Ministero della Cultura a centri di produzione, festival, compagnie e teatri per garantire la loro sussistenza e, quindi, le loro attività. Il bilancio è mortale. Punteggi intimidatori, tagli, cancellazioni, tradizione e conformità premiate, precarietà aumentata: sono aspetti censori e svalutanti della dichiarazione di guerra del Ministero della Cultura contro il mondo dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo. I dati rivelano che ad essere maggiormente colpita è una specifica zona del teatro italiano, quella che lavora fuori dai canoni commerciali. Restando solidali con tutte le realtà coinvolte, per rimanere nell’ambito romano, citiamo i festival multidisciplinari Attraversamenti Multipli (Margine Operativo) e Teatri di Vetro (Triangolo Scaleno Teatro).
Vengono ristabiliti i confini dell’arte consentita, tradendo l’art. 33 della nostra Costituzione che recita: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».
Quali sono, ora, gli spazi pubblici e inclusivi rimasti, deputati alla ricerca del contemporaneo, all’innovazione dei linguaggi, alla libertà d’espressione? Nel settore della politica culturale occorre il segno di una volontà diversa da parte dell’Amministrazione, sia nei confronti del pubblico, suo diritto è accedere a un’offerta culturale ampia, sia rispetto a festival, progetti, comunità e territori, che, per loro natura, devono garantire una crescita, o quanto meno un impatto culturale e sociale. La situazione è preoccupante, ma non paralizza le 2000 persone connesse lunedì 7 luglio, né la rete solidale, di grande fermento e mobilitazione nata dall’Assemblea de *lavorat* dello spettacolo in dialogo con le grandi assemblee precarie delle università italiane, con il settore della cultura e dell’educazione.
Il festival Sempre più Fuori emerge, così, come uno dei tanti strumenti di resistenza, ci diverte e ci mantiene in allerta. Riesce ad esserlo con un programma che sveglia la coscienza del pubblico, invitandolo a riflettere sugli spazi che abita, sull’identità mercificata e isolata, sull’importanza della socialità e della convivialità.

Arte in quanto oggetto di lusso da musealizzare – la famosa banana di Cattelan venduta per 120mila dollari; le figure attorali da “posto fisso”, anticate e polverose, che proteggono e portano avanti l’idea più tradizionale di teatro; il paradosso dell’arte e dell’attore: Uno spettacolo di Leonardo Manzan, visto lunedì 7 luglio a Sempre più Fuori, svela con tagliente ironia le contraddizioni del sistema dell’arte e dello spettacolo.
Ingombranti e centrali sono il corpo nudo e il sorriso beffardo dell’artista, che dall’alto di un piedistallo, unico elemento di cui si compone la scena, fissa, scruta e giudica il pubblico. Il paesaggio ricreato nello spazio esterno dell’Accademia Tedesca Villa Massimo assomiglia a quello di una mostra d’arte: Leonardo Manzan, la sua esposizione fisica e autobiografica sono le tappe monotematiche di cui si compone l’immaginario tragitto artistico. Con lui in scena, Paola Giannini interpreta un’operatrice museale; alle loro spalle la presenza statica, amorfa, di Rocco Placidi, seduto su una sedia, in penombra, per tutta la durata dello spettacolo. Una parodia feroce del culto dell’Io e un egocentrismo volutamente fastidioso: così l’artista, raccontando in cuffia del genio Manzan, l’enfant prodige, rivela la sua derisoria capacità di conquistare cinque applausi a scena aperta ancor prima della metà della performance – è lui stesso a farlo notare al pubblico.

In questa cornice irriverente, Leonardo Manzan si prende beffa dell’attuale mondo dello spettacolo, a partire dall’onnipresenza di Pierfrancesco Favino, sul quale dissemina a pioggia battute taglienti, passando poi per l’imitazione di Massimo Popolizio, Leonardo Lidi e Gabriele Lavia.
Sul finale della performance, però, l’artista non si salva, non risparmia se stesso, anzi verranno battuti all’asta pezzi dell’opera: un autografo, un selfie con Leonardo Manzan, una cena dopo spettacolo con l’attore a 70 euro, fino alla vendita del suo corpo per una notte. Come si può sfuggire al mercato consumistico che ha ridotto l’arte a un mero oggetto di culto, ingabbiandola in logiche (p)ossessive e conservative? Chi rappresenta la controparte dell’ego solitario incarnato da Leonardo Manzan? Paola Giannini si scioglie i capelli, si sbottona la giacca e comincia a ballare una danza liberatoria e viva, quasi a contestare il paradosso delle arti visive e di un teatro fatto di corpi-oggetto, perché solo esibiti.
Sceso dal piedistallo, Leonardo Manzan rimane nella sua posa statuaria, opera da esposizione, senza chinarsi agli applausi.

Giovedì 10 luglio, sul brecciolino dell’Accademia Tedesca di Villa Massimo fa la sua comparsa in stile rock e sfrontato una Panda grigia. A bordo, l’attrice Gioia Salvatori con la sua “brutta natura” in anteprima nazionale e i musicisti Simone Alessandrini, Iacopo Schiavo, Valerio Vantaggio.
Paillettes fluo, movimenti scomposti ed energici, stacchetti musicali pieni di swing, verità scomode e provocatorie, le manie di protagonismo: sono questi gli ingredienti di Avere una brutta natura. Un varietà tutto storto, di e con Gioia Salvatori, che indaga e tratteggia il malcostume dello stare al mondo, la nascita della ritenzione idrica come malessere esistenziale, le diverse situazioni e persone che ci infastidiscono, per cui chiediamo un intervento divino: “PADRE PRELEVACI”. La regista Fabiana Iacozzili cura la messa in scena con un forte impianto visivo, fatto di immagini luminose e scritte d’effetto, che non è solo cornice, ma elemento attivo della performance, a cui contribuisce con la sua forma “anfibia” il coreografo, performer e creatore transdisciplinare Carlo Massari che lascia il segno nella dinamica gestuale, valorizzando appieno le potenzialità espressive dell’artista.

In scena, Gioia Salvatori può ed è tutto: disobbediente, capricciosa, vivace, esilarante, sensuale. Ammicca al pubblico, ne cerca la complicità, si concede un cambio d’abito, riflette sullo stato attuale delle cose, ironizza sull’essere donna. Il linguaggio fluido del varietà – fatto di musica, comicità e corpo danzante – dimostra come l’arte più sfrontata non sia immune dalle urgenze del presente. Si rivela, anzi, una lente critica, capace di inserire, con lucida consapevolezza e nel brevissimo tempo di una battuta, la denuncia del tracollo culturale e dei sostegni economici gambizzati del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo.
La resistenza può avere anche il volto di una risata e Gioia Salvatori ce lo ha ricordato.
Sempre più Fuori, Accademia Tedesca Roma Villa Massimo, Goethe-Institut Rom, Cimitero Monumentale del Verano e Policlinico Umberto I, Roma, fino al 18 luglio 2025.