Tracce, snodi e memorie. Elena Perlino si racconta a cura di Natascia Di Baldi

Elena Perlino, Mediatrice culturale Antitratta, Napoli, 2012

Il focus di questa sezione è il monitoraggio delle esperienze professionali degli italiani attivi a Parigi, in quel crocevia dinamico tra arte, teatro, cinema e musica. A Parigi, la cultura italiana è sostenuta e apprezzata in tutte le sue declinazioni. Al di là della retorica, sorge spontanea una domanda: perché le istituzioni italiane non offrono opportunità e sbocchi adeguati a questo immenso patrimonio immateriale?

Guardare all’altrove

Dopo aver raccontato l’esperienza di Romina De Novellis, Alessia Siniscalchi e di Alessandro Coppola, proseguiamo nel tracciare la nostra mappa degli “espatriati” con Elena Perlino, fotografa documentarista piemontese attiva a Parigi dal 2012, il cui lavoro attraversa mondi diversi e si definisce ancor prima di fissarsi sulla pellicola.

Decisivo è il racconto di realtà sommerse e la capacità di dare forma a tematiche complesse, in cui le immagini si offrono come premesse di un progetto più ampio. Colpisce, infatti, come Elena Perlino sappia restituire, attraverso il linguaggio fotografico, prospettive di sguardi che diventano segmenti di vite, rendendo vivo ciò che l’immagine mostra. La sua fotografia trattiene il qui e adesso, ma invita al tempo stesso a uno sguardo più profondo, in cui ciò che è visibile diventa chiave per accedere a ciò che resta invisibile.

«Dopo la laurea in Lettere e Filosofia a Torino, ho intrapreso diverse esperienze che sembravano lontane dal mio percorso di studi», racconta Perlino. «Fino ai ventotto anni non avevo mai osato immaginarmi fotografa professionista. Mi sono cimentata nell’imprenditoria e nel marketing: esperienze che, col tempo, si sono rivelate preziose perché mi hanno aiutata a capire che la fotografia poteva diventare il lavoro della mia vita, non solo una passione, ma una professione a tempo pieno.

Ho preso davvero coscienza di tutto questo quando ho iniziato a lavorare come assistente presso la scuola di fotografia Toscana Photographic Workshop (1). Fare l’assistente significava confrontarsi ogni giorno con fotografi professionisti: un’esperienza formativa che mi ha dato moltissimo. La passione che animava i docenti — e che sentivo forte anche dentro di me — mi ha fatto capire che la fotografia poteva trasformarsi in un mestiere o, meglio ancora, in un modo di stare al mondo.

Perché dico questo? Perché della fotografia mi interessa soprattutto l’aspetto legato al cogliere l’imprevisto, ciò che non si può anticipare. Certo, bisogna conoscere la tecnica, saper leggere le variazioni della luce, sapersi relazionare con le persone, ma fotografare va ben oltre lo scattare una bella immagine. Significa saper attendere un momento che non era prevedibile, che si manifesta davanti a te e che puoi catturare solo se hai liberato la mente da tutto il resto. Solo allora sei pronto a isolare quell’attimo di bellezza.

All’inizio ho cominciato realizzando reportage per giornali italiani e stranieri. Si è creata una rete di collaborazioni con “la Repubblica”, “iO Donna”, “Elle”. Ho conosciuto il mondo di Rizzoli, con cui ho lavorato a lungo — in particolare per “Max” — ma anche con riviste francesi e tedesche. Si trattava soprattutto di progetti a breve termine, con interlocutori ricettivi e stimolanti. Successivamente ho iniziato a collaborare con fondazioni che sostenevano progetti a lungo termine.

È così che ho potuto portare a termine Pipeline, iniziato nel 2005, quando ero ancora all’università: un’indagine fotografica sulla tratta delle donne nigeriane in Italia, che ho concluso nel 2012. Grazie al sostegno dell’Open Society Foundations (2), il progetto è diventato nel 2014 un libro, pubblicato da Schilt Publishing e André Frère Éditions (3-4).

Elena Perlino, La vigilia della Rivoluzione, Il Cairo (Egitto), 2011

«Questo mio primo contatto con una casa editrice è stato un passaggio formativo importante» – prosegue Perlino, «perché cambia completamente il rapporto con i ritmi serrati imposti dalle riviste. Si ha il tempo di riflettere sulla narrazione, sia visiva che testuale. È un lavoro di squadra, in cui anche il grafico deve comprendere la tua visione del mondo. Tale esperienza ho avuto la fortuna di ripeterla in altre tre occasioni. Lavorare con l’Open Society Foundations è stato un privilegio: una volta approvato il progetto, mi hanno lasciato carta bianca su come realizzarlo. La condizione di totale libertà è, per un fotografo — e non solo — fondamentale. Ti permette di esprimere la tua creatività sentendoti, allo stesso tempo, davvero sostenuto.

Per fare fotografia serve una macchina fotografica, certo, ma soprattutto è necessaria una riflessione che precede l’azione. Prima devi immaginare ciò che ti interessa, poi approfondirlo, cercare spunti non ancora esplorati. E infine: scattare, scattare, scattare. Come in tutti i mestieri che richiedono manualità, il gesto si ripete, ma ciò che accade intorno a te è diverso ogni volta. E anche tu cambi. All’inizio ho sperimentato il bianco e nero, sviluppando e stampando le fotografie da sola, ma poi ho capito che mi interessava di più il colore. Mi affascina lavorare con poca luce, in atmosfere rarefatte: le persone appaiono più rilassate. Amo la luce al tungsteno, i neon».

Elena Perlino, Islam in Italia, Torino 2016

«Nel mio primo lavoro», continua la Perlino, «quello sulla tratta, all’inizio non avevo idea di dove stessi andando: l’unica certezza era il bisogno di fare qualcosa, e la fotografia era il mio strumento per agire.

Avevo iniziato raccontando le ragazze in strada, nel cuneese — un lavoro radicato nel territorio, in contrasto con la durezza della realtà della tratta — ma con il tempo ho compreso quali aspetti mancavano: come, per esempio, quello dei matrimoni misti.

Grazie al sostegno della Magnum Foundation (5) ho potuto approfondire anche questa prospettiva. Spesso si trattava di vere storie d’amore con uomini italiani, disposti persino a vendere la propria casa per saldare il debito contratto dalla donna. Un magistrato di Torino mi disse: “L’italiano è puttaniere, ma romantico. In Norvegia hanno lo stesso problema con la tratta, ma lì nessuno si vende la casa per liberare una donna dal debito. Eppure, il debito si aggira sui centomila euro. Se inizi a pagarlo, la donna può uscire dalla strada”. Mi piace esplorare aspetti diversi di uno stesso tema, tornarci sopra con occhi nuovi, andare a fondo.

Il secondo lavoro importante è stato sull’Islam italiano, sostenuto dalla Fondazione lettera27. Dopo gli attentati al Bataclan, molti Paesi europei sentivano l’urgenza di conoscere più a fondo le comunità islamiche presenti sul proprio territorio». Ne è nato Maktoub, un libro pubblicato nel 2016 da Cibele Edizioni (6), che racconta attraverso le immagini un Islam quotidiano, italiano, spesso invisibile.

Scattare fotografie rappresenta solo un terzo del mio lavoro. Un altro terzo è dedicato alla ricerca e alla costruzione dei progetti, mentre il resto del tempo va alla post-produzione: dalla selezione delle immagini ai ritocchi con Lightroom. In fotografia si scarta moltissimo: arrivare all’essenza di ciò che si vuole raccontare è uno degli aspetti più importanti di questa professione».

Elena Perlino, Giocatori di dama, Goutte d’Or (Parigi), 2014

«Oggi, per una donna fotografa, le opportunità sono molte più numerose rispetto a quando ho iniziato», precisa Perlino. «In Francia, ad esempio, il sostegno governativo si concretizza nella piattaforma Elles font la culture (7), che lavora attivamente per colmare il divario di genere nel mondo della fotografia. Si tratta di un’iniziativa preziosa, che offre visibilità, supporto concreto, contributi e borse di studio.

La scelta di vivere a Parigi è stata inizialmente dettata da motivi familiari, ma ben presto ho scoperto un ambiente estremamente favorevole alla fotografia, ricco di residenze, fondi e opportunità di finanziamento.

In questo contesto, sono entrata in contatto con il mondo fotografico del Québec tramite Rencontres internationales de la photographie en Gaspésie (8), con cui ho collaborato per diversi anni attraverso residenze d’artista.

Queste esperienze mi hanno permesso di conoscere da vicino le famiglie di Schefferville, da cui è nato Indian Time (2022), un lavoro che esplora temi di identità e territorio, un libro dedicato alla comunità autoctona Innu, pubblicato da Éditions Loco (9), e con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Montréal.

Non sempre è necessario andare lontano per viaggiare. Vivo con la mia famiglia al Goutte d’Or, un quartiere parigino dove si incrociano umanità provenienti da cinque continenti: una fonte inesauribile di ispirazione. Proprio qui ha visto la luce il progetto Paris Goutte d’Or (10) pubblicato da Éditions Loco. Devo ammettere che all’inizio ho faticato a trovare la giusta distanza per fotografare: quando si parte per un progetto lontano da casa, si entra naturalmente in uno stato di curiosità verso un mondo “altro”. Ma fotografare nel luogo in cui si vive è molto più complesso: bisogna creare una “bolla” personale che consenta di muoversi, osservare e agire, uscendo dalle consuetudini di spesa-scuola-conoscenze, da quella comfort zone che ci rassicura. Occorre imparare a guardare gli spazi fin troppo familiari come se fosse la prima volta.

Ricordo un’estate in cui, per il caldo, i ragazzi aprirono i bocchettoni dei pompieri e l’acqua iniziò a inondare le strade: sembrava una scena del Bronx, con un pizzico di foresta pluviale; non sembrava affatto Parigi. Mi piace quando la fotografia restituisce un senso di spaesamento, quando racconta ciò che non viene detto, lasciando allo spettatore il compito di decifrarlo. Non tutto deve essere spiegato: anche il mistero fa parte del racconto.

I miei riferimenti sono più filosofici e scientifici che letterari. Ho avuto la fortuna di lavorare come assistente di fotografi come il californiano Jim Goldberg, ammiro profondamente l’approccio di Michael Ackerman e non posso che inchinarmi davanti alla capacità visionaria di Francesca Woodman. Il loro lavoro mi ispira intensamente. Apprezzo i fotografi capaci di comunicare emozioni, al di là della semplice attenzione all’estetica.

Per essere fotografi, bisogna essere grandi solitari, perché l’incontro con l’altro non prevede intermediari. Questo aspetto ci obbliga a lavorare molto anche su noi stessi, in un processo che non è lontano dalla meditazione. Sono grata di aver potuto, per vent’anni, scegliere questa strada e questa opportunità di vita».

Per chi si troverà a Parigi in autunno, alla Maison Château Rouge si terrà una mostra dedicata alla presenza Black nella capitale francese, in cui saranno esposti anche i contributi di Elena Perlino.

Per tutte le informazioni su Elena Perlino e sulle sue opere rimandiamo al sito:
www.elenaperlino.com/

Altri siti di interesse citati nell’articolo:

  1. tpw.it
  2. opensocietyfoundations.org
  3. schiltpublishing.com/shop/
  4. andrefrereditions.com
  5. magnumfoundation.org
  6. cibele.it
  7. culture.gouv.fr/
  8. photogaspesie.ca
  9. editionsloco.com
  10. postcart.com/libro/9788898391806
Elena Perlino, Villaggio minerario, Schefferville (Québec, Canada), 2017
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