La grande Letteratura ha un cuore semplice: parola di Glauco Mauri e Matteo Tarasco di Laura Novelli

Capolavoro indiscusso della letteratura mondiale, I fratelli Karamazov di Dostoevskij (1880) è un’opera che, a partire dai primi del Novecento, ha spesso attraversato le scene russe ed europee sottoponendosi alle visioni e re-visioni di registi quali, tra gli altri, Vladimir Nemirovič-Dančenko (che ne curò una regia al Teatro d’Arte di Mosca nel 1910), Jacques Copeau (che ne fece uno degli spettacoli di repertorio del suo Vieux Colombier), Pietro Sharoff, Anton Giulio Bragaglia, Diego Fabbri. Fino all’articolata messinscena di Luca Ronconi dove l’opera veniva suddivisa in tre spettacoli distinti, I lussuriosi, Il Grande Inquisitore, Un errore giudiziario, programmati al teatro Argentina di Roma nel biennio 1998-1999. Adesso, a distanza di vent’anni da quel memorabile lavoro, l’ultimo romanzo dell’autore russo torna nelle nostre sale grazie ad una felice sinergia di interventi che vede Glauco Mauri (interprete) e Matteo Tarasco (regista) firmarne a quattro mani una nuova versione teatrale, la cui maggiore qualità risiede, secondo noi, nella ricerca di una nitidezza narrativa ed espressiva capace di distillare il succo della trama rendendola semplice. Laddove “semplice” non significa svuotata di senso o ridotta. Bensì, al contrario, estremamente compatta, fruibile, chiara anche nei suoi intenti più sfumati e sottesi.
Scelti come binari drammaturgici i grandi temi-chiave dell’ambiguità che stringe insieme Amore e Morte, Delitto e Colpa, Divino e Umano, essi diventano qui i cardini di una vicenda familiare che, sgrossata di molti episodi e di numerosi personaggi, mostra – senza reticenze e in modo quasi geometrico – i rapporti di forza messi in campo: l’odio profondo che innerva le relazioni tra il vecchio padre Fëdor (lo stesso Mauri) e i suoi tre figli legittimi (Ivan/Roberto Sturno, Dimitrij/Laurence Mazzoni, Aleksej/Pavel Zelinskiy); le rivalità sentimentali alimentate dalle presenze femminili (Katerina Ivanovna/Giulia Galiani e Grušen’ka/Alice Giroldini); il rancore doloroso che cova il figlio illegittimo Smerdjakov (Luca Terracciano); l’esagerata esposizione al pathos con cui tutti agiscono o parlano. Come fossero anti-eroi tragici di una classicità oramai impossibile. Oramai negata da un illogico laicismo che muove azioni, passioni, pensieri e che, tanto più, offre vane consolazioni a quel torbido parricidio su cui si incentrerà la seconda parte dello spettacolo.

 

Il pathos sovraesposto dei personaggi/interpreti è pertanto segno di una fragilità tutta umana, di una con-fusione valoriale che riflette, proprio perché la amplifica, la “bassezza” dei Karamazov stessi. Ad esserne dispensato è solo il pio Aleksej (e anche l’interpretazione di Zelinskiy cerca una pacatezza volutamente delicata, ben diversa dagli umori sanguigni che agitano le altre presenze sceniche): figura/simbolo della fede che non a caso apre la pièce, insieme con lo starec Zosima di Paolo Lorimer, aspettando la visita che da lì a breve i suoi familiari faranno al monastero dove egli risiede. Calata in una penombra assorta ed elegante, questa prima scena fa dunque da proemio all’energia con cui – per contrasto – proprio in quel luogo sacro il burbero padre porrà domande sull’esistenza o meno di Dio, sul senso della vita, sulla paura della morte. Ebbene, si ha da subito la netta sensazione che questi Karamazov vengano guidati da Tarasco direttamente al cuore della faccenda. Dritti come treni in corsa, i protagonisti della torva storia dostoevskiana sembrano chiamati, cioè, ad un abbassamento realistico (questo sì intimamente dostoevskiano) della loro intima epicità. Abbassamento che senza dubbio ne espone più facilmente i nervi, ma che li restituisce al pubblico come paradigmi ben riconoscibili, popolari, eloquenti.
La resa in questa direzione è corale. Segno che testo e regia concorrono entrambi a pensarli e volerli così. E segno che in larga misura essi sono così anche nel poderoso romanzo. Perché in fondo ciò di cui parla Dostoevskij qui è grandioso e insieme umanissimo, sublime e al contempo misero: la pulsione al male che attraversa le anime di tutti noi e, soprattutto, la necessità della fede in un mondo in cui non è più possibile avere fede. È d’altronde proprio questa discesa nelle viscere dell’umano e delle sue contraddizioni ciò che maggiormente interessa Mauri e Sturno, già in passato artefici di due importanti lavori “dedicati” al grande autore russo: L’idiota (1993) e Delitto e castigo (2005). In questo I fratelli Karamazov i due attori (insieme sul palcoscenico da oltre trentacinque anni) rappresentano i vettori di forze controverse: un padre ubriacone, egoista, denigratorio e donnaiolo, al quale il Maestro ultraottantenne regala con estreme disinvoltura e fluidità un registro sarcastico e pungente non privo di venature malinconiche, e un figlio colmo di astio e di angosce personali, per il quale Sturno sceglie una cupezza mossa da sfoghi passionali e punte di frustrazione più sopita. A lui spettano due intensi momenti drammatici: il monologo in cui spiega ad Alekseij la trama de Il Grande Inquisitore, poema da lui stesso scritto in cui si racconta di un vecchio Inquisitore che non crede in Dio e dove si contrappone alla fede la capacità di “soffocare l’anima nel male” (in questo risiede la forza stessa dei Karamazov), e il soliloquio del finale nel quale Ivan, dopo aver saputo che il vero assassino del padre non è Dimitri ma Smerdjakov e aver trovato quest’ultimo impiccato nella sua camera, delira avvolto nel buio (molto ben studiate le luci di Alberto Biondi) parlando con un diavolo immaginario, un “matto”, che altri non è se non che egli stesso, la sua voce, la sua coscienza. Una proiezione immaginaria della sua amina nera.

 

Quell’anima nera che non risparmia neppure il nervoso ed energico Dimitrij di Mazzoni, forse il più romanticamente dannato dei fratelli: ondeggiando tra la passione accesa che lo lega a Grušen’ka e il legame ancora stretto con Katerina Ivanovna (a sua volta innamorata anche di Ivan), finirà accusato ingiustamente di parricidio e condannato ai lavori forzati. Le due figure femminili che ne costellano il vissuto appaiono qui, come d’altronde nella vicenda narrata da Dostoevskij, assolutamente opposte ma complementari: priva di scrupoli, vitale, subdola ma consapevole di sé e dei propri sentimenti la prima (la Giroldini si muove a proprio agio nelle ambivalenze del personaggio malgrado sottolinei eccessivamente certi vezzi da donna facile); compassata, altera, impaurita, più irrisolta e fragile la seconda, personaggio che la Galiani delinea in modo forse troppo poco mobile, prediligendo una staticità di toni e movenze non sempre efficace. Malgrado loro, anche Grušen’ka e Katerina Ivanovna sono dentro quella macchia tragica e quel soffocante senso del male che avvolge i Karamazov. Anche loro ne sono state contagiate. Non c’è scampo. La vita stessa non può essere diversa da così. E la follia in cui si consuma l’epilogo lo dimostra. Sembra quasi una follia pirandelliana ma più concreta, più sconsolata.
Nella bella scenografia a firma di Francesco Ghisu scorrono porte e pareti che scandiscono i diversi momenti della storia e i diversi ambienti in cui essa si svolge. Passaggi morbidi. Quasi naturali. Anch’essi ispirati a una semplicità mai banale. Come “semplice” è appunto la complessità stessa di questo lavoro atteso in diverse piazze Italiane (www.mauristurno.it) e accolto da calorosi applausi al Teatro Eliseo di Roma durante le repliche, tutte rigorosamente sold out, della scorsa settimana.

I fratelli Karamazov
di Fëdor Dostoevskij
libera versione di Glauco Mauri e Matteo Tarasco
con Paolo Lorimer, Pavel Zelinskiy, Glauco Mauri, Roberto Sturno, Laurence Mazzoni, Luca Terracciano, Giulia Galiani, Alice Giroldini
scene Francesco Ghisu
costumi Chiara Aversano
musiche Giovanni Zappalorto
luci Alberto Biondi
regia Matteo Tarasco
foto di scena Manuela Giusto

Teatro Eliseo, Roma, dal 5 al 17 febbraio 2019. In tournée.