Rito e messaggi subliminali: il grande lavoro di Latella su Albee di Katia Ippaso

Foto di Brunella Giolivo

Se, a livello di piccole produzioni, è ancora possibile incontrare – magari per sbaglio, per pura fortuna o per ostinazione – atti solitari di resistenza poetica, è assai raro registrare, tra le ultime novità confezionate dagli stabili, un’opera teatrale vivente che sappia aprire le porte della percezione e radicarsi come una autentica avventura conoscitiva non solo per gli artisti coinvolti, ma anche, e soprattutto, per gli spettatori. Non parliamo di opere “grandiose” o “monumentali” che di per sé richiamano la mondanità e l’attenzione mediatica. Al contrario, ci riferiamo a quello strano fenomeno per cui d’improvviso, dopo tanta autocelebrazione, sul palcoscenico “ogni cosa è illuminata”. Ecco, assistendo al Teatro Argentina di Roma a Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee diretto da Antonio Latella, ogni singolo particolare, dal disegno scenico dei corpi ai gesti compiuti (e incompiuti) dagli attori, dall’articolazione delle voci fino ai colori della stanza della tortura ricostruita in palcoscenico, ecco, tutto respira secondo un ritmo scaturito dalla lettura approfondita del testo: un lavoro corale modellato sull’anima e le forme del grande teatro europeo. A distanza di più di 25 anni dalla sua comparsa sulla scena napoletana, dopo la direzione della Biennale Teatro (2017-2020) e soprattutto grazie a un esilio volontario che l’ha fatto spostare a Berlino, Latella dimostra con questo spettacolo di essere un regista capace di chiedere a sé stesso sempre di più, sondando la materia in modo implacabile e insieme razionale. «Ripeness is all», scrive William Shakespeare: «La maturità è tutto». Una frase che aveva ossessionato Cesare Pavese, un autore che non si è mai accontentato, scegliendo l’ignoto al posto del noto.

Foto di Brunella Giolivo

Ecco, ci sembra che a 55 anni Latella abbia raggiunto una tale maturità espressiva da condurlo verso zone sconosciute, apparentemente più impervie. Invece di mostrare un attaccamento verso uno stile artistico ripetitivo, il regista napoletano ha avuto il coraggio di misurarsi con i classici moderni e contemporanei (è successo già con Amleto, protagonista Federica Rosellini) interrogando fino allo spasimo la parola stessa, che non viene soltanto rispettata (ricordiamo il primo tempo di Natale in casa Cupiello in cui gli attori immobili recitavano persino le didascalie di Eduardo?) ma addirittura dilatata e approfondita nei suoi significati, filologici e poetici. Prendiamo il titolo stesso di Albee. Grazie anche al lavoro della drammaturga Linda Dalisi che si è spinta fino in America per studiare da vicino la biografia di Edward Albee («adottato a 18 mesi per 133 dollari, ha vissuto nel lusso e nel benessere ma senza un briciolo di amore familiare») e i rapporti tra le arti nella sua teoria drammatica, Antonio Latella ha deciso, per esempio, di anticipare, spostare e dilatare tutto il campo semantico che viene richiamato in vita dal titolo dell’opera. Perché il refrain Who’s afraid of of the big bad Wolf? (Chi ha paura del lupo cattivo?)  contenuto in una canzoncina inglese per bambini diventa, freudianamente, Who’s afraid of Virginia Woolf? (Chi ha paura di Virginia Woolf?). «Non posso credere che questa scelta, in un autore attento come Edward Albee, sia solo un vezzo intellettualistico, dal momento che per sostituire la parola “lupo” scomoda una delle figure intellettuali più importanti del Novecento, Virginia Woolf» scrive Latella nelle note di regia.

Foto di Brunella Giolivo

Ed è assecondando il filone di pensiero che va da Virginia Woolf a Edward Albee fino ai geni ribelli delle generazioni a venire, che il regista ci consegna la prima scena in cui Sonia Bergamasco, nei panni di Martha, intona al pianoforte (strumento che l’attrice milanese conosce bene, essendo diplomata al Conservatorio oltre che alla Scuola del Piccolo Teatro), Chi ha paura di Virginia Woolf?. Mentre Vinicio Marchioni nei panni di George, se ne sta immobile nella sua poltrona, avvolto nel presentimento della tempesta che, da un momento all’altro, si scatenerà. In questa prima scena piena di tensione, frutto di un serio lavoro sul campo (letterario, scenico e attoriale) si deposita una costruzione apparentemente invisibile che permette di addentrarsi nel bosco scuro della pièce con l’animo già accordato con la sfrontata libertà dell’inconscio. Ispirato dalla figura di Virginia Woolf, «che insegnò alle donne ad uccidere le loro madri, come agli uomini Edipo insegnò ad uccidere i nostri padri», Latella compone, sulla gamma pressoché infinita di espressioni vocali, fisiche e psicologiche di Sonia Bergamasco, una figura di donna che risolve nell’alterazione di una performance notturna la propria inquietudine esistenziale. Vinicio Marchioni, dal canto suo, trova una concentrazione assoluta che lo porta a scolpire nella camminata meccanica e nell’apparente impassibilità la figura di George, uomo umiliato e innamorato che quella notte (ma forse ogni notte, oppure nessuna) si fa trascinare dalla sua indomabile moglie, ultima discendente di una “razza padrona”, nella messa in opera di un teatro del sogno, dove a fare da capri espiatori sono due giovani sposi appena arrivati in paese.
Nel rigore quasi astratto di una scena metafisica che si accende di monocromie assolute ritagliate su abiti, stoffe e pochi oggetti di design, George e Martha accerchiano Nick (Ludovico Fededegni) e Honey (Paola Giannini), giovane coppia ospitata nel bel mezzo della notte, improvvisando un party a base di alcol, ricatti e provocazioni sessuali. È un copione che forse è già stato recitato. Ma quella sera qualcosa scappa di mano, perché Martha non mantiene la promessa e parla agli estranei del “figlio”: figura fantasmatica che fa da moltiplicatore di paure e illusioni.

Foto di Brunella Giolivo

Che il testo di Albee contenesse più di un segreto lo avevano capito anche Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson, della mitica Scuola di Palo Alto, California (destinata a diventare, dal 1958 in poi,  uno dei laboratori più evoluti della psicoterapia basata su studi di cibernetica, logica, antropologia, teoria dei giochi) scegliendo di dedicare  un intero capitolo del loro illuminante saggio del 1967, Pragmatica della comunicazione umana, all’analisi di Chi ha paura di Virginia Woolf?, scritto da Albee pochi anni prima, nel 1962. Quello che i tre teorici intuirono nell’opera di Albee si ritrova perfettamente nel mondo ricreato da Latella e dai suoi artisti: il «sistema aperto» creato da Martha e George rappresenta un modello «omeostatico» molto raffinato in cui «le stesse tattiche servono non soltanto a eseguire il gioco ma anche a perpetuarlo». In una escalation simmetrica che incorpora ogni volta le possibili reazioni dell’altro, si mantiene anche il motivo mitico del “figlio”, che viene mantenuto per evitare che il sistema familiare distrugga sé stesso.
Stiamo parlando della funzione psichica dell’immaginario, che si dispiega secondo regole, ripetizioni e deviazioni (spesso solo apparenti) di tipo simmetrico.
Rispettando alla lettera le atmosfere suggerite dallo stesso Albee attraverso i titoli che aveva dato ai tre atti della sua opera – “Giochi e divertimento”, “La notte di Valpurga”, “Esorcismo” –, Latella ha creato sul palcoscenico tutte le condizioni perché avvenisse un vero e proprio rito iniziatico. In cui tutti, attori, autori, scenografi, costumisti, sound e light designer, spettatori e regista, potessero scambiarsi le parti e guardarsi allo specchio. È davvero così che funzioniamo? Chi può dirsi incolpevole? Sappiamo cosa diciamo quando stiamo parlando? Quanti piccoli crimini compiamo ogni giorno, nella pratica della comunicazione umana? Quale bestia feroce sta parlando al posto nostro? Possiamo veramente illuderci di coprire i sentimenti più ostili dietro la maschera della civiltà? Sono soltanto alcune delle domande che alla fine lo spettatore è costretto a farsi quando, solo sulla strada che lo riporta a casa, ripensa, non senza un brivido di terrore, a quello che ha appena visto.

Chi ha paura di Virginia Woolf?

di Edward Albee
traduzione Monica Capuani
regia Antonio Latella
con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini
dramaturg Linda Dalisi
scene Annelisa Zaccheria
costumi Graziella Pepe
musiche e suono Franco Visioli
luci Simone De Angelis
assistente al progetto artistico Brunella Giolivo
assistente volontaria alla regia Giulia Odetto
documentazione video Lucio Fiorentino
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli.

Teatro Argentina, Roma, dal 31 gennaio al 12 febbraio 2023.

Tournée:
Teatro della Pergola, Firenze, fino al 19 febbraio 2023
Teatro dell’Unione, Viterbo, 21 febbraio 2023
Teatro Piccinni, Bari, dal 23 al 26 febbraio 2023
Teatro della Fortuna, Fano (PU), 28 febbraio 2023.