La Danza nell’era della retromania di Fabio Acca

Foto di C. Farina

Nell’ambito della riflessione e delle pratiche italiane legate alla danza contemporanea, siamo o non siamo nella “retromania”?

Con “retromania” si intende il dilagare nel nostro tempo di un interesse – nella musica, nel teatro, nella moda, ecc. – per tutto ciò che è passato, commemorativo, nostalgicamente antecedente al presente. <<Questo genere di retromania>> – si domandava qualche anno fa il critico inglese Simon Reynolds – <<è diventato una forza dominante nella nostra cultura, tanto che oggi abbiamo la sensazione di aver raggiunto un punto di svolta. La nostalgia blocca la nostra capacità culturale di guardare avanti, oppure siamo nostalgici perché la cultura ha smesso di progredire, costringendoci a concentrare l’attenzione su epoche più movimentate e dinamiche?>>.

Quella di Reynolds va intesa da un lato come una provocazione retorica per esortare chi opera nei settori della cultura ad assumersi il rischio della scoperta, della valorizzazione di ciò che ancora non ha trovato il consenso e non è protetto dall’aura del tempo; dall’altro pone un problema interessante rispetto a cosa sia oggi il contemporaneo e alla sua – pur necessaria – dialettica con il passato.

Rispetto a questo tema, negli ultimi mesi ho avuto il piacere di poter essere testimone – cosa rara – di due “casi” emblematici per l’identità odierna della scena contemporanea italiana. Primo fra questi la ri-edizione, a distanza di sedici anni dall’originale, della creazione <OTTO>, di Kinkaleri, che ha debuttato lo scorso settembre al Festival Contemporanea di Prato con quattro performer nuovi di zecca, andando dunque a sostituire gli “storici” Matteo Bambi, Luca Camilletti, Marco Mazzoni, Cristina Rizzo. Il secondo caso riguarda il debutto, sempre a settembre, dell’Excelsior di Salvo Lombardo/Chiasma al Festival Oriente Occidente di Rovereto: una creazione che pur non essendo dichiaratamente l’attualizzazione dell’omonimo Excelsior del 1881 con le coreografie di Luigi Manzotti, tuttavia ad esso si ispira, sebbene con una libertà compositiva e una tensione al superamento di un ipotetico modello che mettono in crisi l’idea stessa di origine.

Foto di C. Farina

Va subito detto che la ricostruzione di Kinkaleri ha poco di quella idea sostanzialmente conservatrice che anima molti progetti di re-enactment, anche italiani. In questo senso condivido pienamente la posizione espressa da Alessandro Pontremoli nel suo ultimo, illuminante volume La danza 2.0. Paesaggi coreografici del nuovo millennio, nel quale lo studioso inscrive nel cosiddetto “primo paesaggio”, o “paesaggio museale”, <<i processi di repertorizzazione e di ri-messa-in-azione di alcuni lavori avanguardisti del Novecento, a opera, in gran parte, dei loro stessi autori e finalizzata alla trasmissione>>. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di dimostrazioni di resistenza al tempo, ovvero di rendere disponibili al pubblico odierno creazioni che nel passato hanno avuto la capacità di segnare l’immaginario dell’epoca, ma che oggi, pur nella indubbia fascinazione che queste creazioni inducono nell’osservatore contemporaneo, faticano a illuminare qualcosa che riguardi un futuro possibile.

A un primo sguardo distratto anche l’operazione di Kinkaleri sembrerebbe ricadere passivamente in questa logica, ma a ben osservare, quello del gruppo toscano risulta essere più il rilancio futuristico di quel valore sperimentale che ha animato fin dagli anni Novanta una carriera sostanzialmente carbonara nell’ambito della danza. Di fatto, a dispetto del premio Ubu vinto dal gruppo nel 2002 con <OTTO>, e nonostante il discreto successo a livello internazionale della creazione, Kinkaleri è stato da sempre guardato in Italia con un certo sospetto dalla critica “di danza”, cioè da coloro che interpretano la danza come teologia del danzare e delle espressioni artistiche immediatamente riconoscibili dentro questa specifica tradizione, come una prospettiva monoteista che indaga la danza non come esperienza culturale (nel senso complesso indicato dai Cultural Studies), ma come dottrina disciplinare.

In occasione della riedizione 2018 di <OTTO>, in dialettica con i tanti commenti positivi intorno allo spettacolo, come esercizio di analisi critico-storica sono andato a ripescare e rileggere le recensioni più significative scritte tra il 2002 e il 2003 intorno alla creazione. Ebbene, il dato più saliente, oltre a un generico inquadramento determinato da una lettura deformata dalla lente del teatro-danza, può essere sintetizzato dalla ricorrenza nella critica del tempo di una parola chiave: afasia. Cioè, per esempio, nell’interpretare come “afasia scenica” (Guatterini), o “afasia che ammanta ohimè le nostre relazioni quotidiane: l’impossibilità di entrare in contatto, o meglio in sintonia, con gli altri” (Poletti) quello che per il gruppo era in realtà una consapevole presa di posizione critica (e politica) nei confronti della danza. Non si trattava, in altre parole, della incapacità di elaborazione di un linguaggio, o, ancor peggio, di un pronunciarsi sui temi dell’incomunicabilità, quanto, per dirla con il caro Lepecki, di esporre una danza “esausta”, cioè una danza che metteva in crisi le regole definite della coreografia per rifondarle attraverso un inedito e provocatorio approccio compositivo, all’insegna della sospensione delle gerarchie e dei generi. E questo in un orizzonte di rinnovamento del gusto più europeo e in un momento in cui in Italia, nella cosiddetta “danza d’autore”, si faticava ad uscire dalla marchiatura a fuoco di un teatro-danza e di un postmodernismo tardivi.

Oggi, a distanza di più di quindici anni, <OTTO> di Kinkaleri risulta un oggetto forse maggiormente leggibile, ma tuttavia ancora trattiene il seme della sua hybris originaria. E per questo ancora brilla di una luccicanza che ci fa scorgere qualcosa non solo del presente, ma del prossimo futuro.

Diversamente dalla sopra accennata calorosa accoglienza ricevuta dalla riedizione di <OTTO> di Kinkaleri, l’Excelsior di Salvo Lombardo/Chiasma ha suscitato invece per lo più, dopo il debutto a Rovereto, critiche piuttosto severe, per certi versi simili, con una curiosa simmetria, a quelle ricevute nel 2002/2003 dagli stessi Kinkaleri all’indomani della presentazione di <OTTO>. A capitanare questa sorta di compatto “plotone d’esecuzione”, ieri come oggi, la suddetta critica “di danza”, che in un’ottica meccanicamente comparativa ha messo al centro della propria analisi continuità e discontinuità con il presunto originale del 1881, una presunta debolezza compositiva del coreografo, nonché una – ancora presunta – fragilità interpretativa e, più in generale, un presuntissimo concettualismo incapace di trasformarsi in esiti scenici significativi.

Foto di C. Farina

In questa – legittima, intendiamoci – enciclopedia di presunzioni spicca però ancora una volta la parola “afasia”, che si candida evidentemente come termine passe-partout ogniqualvolta si voglia stigmatizzare il lavoro di un autore che non rientri nei canoni di una danza teologicamente intesa. Da un lato, prendendo le parti di un pubblico ignaro della matrice ottocentesca dello spettacolo, <<la frammentazione gestuale e coreograficamente spenta della pièce di Lombardo potrebbe solo risultare afasica>> (Guatterini); dall’altro, osservando estesamente la generazione di giovani autori a cui lo stesso Lombardo appartiene e il sostegno a essi dedicato, <<quando l’esito è afasico e sterile, mal amalgamato e confuso – e oltre tutto interpretato con incertezza (il corpo, anche se democratico, deve avere una sua disciplina e consapevolezza scenica) allora è giusto fermarsi>> (Poletti).

Questi “incoraggiamenti”, evidenziati nella versione di chi scrive dai corsivi, testimoniano ormai lo storico scollamento tra una generazione di artisti e l’ortodossia interpretativa di una certa critica accreditata in modo esclusivo nell’area della danza, incapace, quest’ultima, di sintonizzarsi sulle urgenze di molti giovani autori, agitando giudizi a mo’ di sigillo in una crescente dispersione di autorevolezza che rischia di alimentare solo un decadente egocentrismo. Ma soprattutto tradisce, nel quadro sistemico della danza contemporanea italiana sempre più ai limiti della sopravvivenza, la mancanza di quella partecipazione e di quella empatia politica di cui gli artisti italiani oggi hanno più che mai bisogno. L’ortodossia è ormai pericolosa a tutti i livelli, e credo sia indispensabile oggi praticare l’esercizio del politeismo, anche per chi si fa carico di un atto di pensiero relativamente a un mondo, tutto sommato residuale, come quello della danza.

Dal punto di vista di chi scrive, l’approccio alla danza di Salvo Lombardo, non solo in questa creazione ma in tutti i suoi ultimi lavori, va inteso come un fecondo incidente, nella misura in cui il corpo e il movimento vengono indagati soprattutto come deposito di memoria, come impronta della carne, tanto apparentemente impalpabile quanto potente nel determinare rituali di comportamento. Potremmo dire, in altre parole, che la dimensione coreografica praticata da Lombardo, anche in Excelsior, mira soprattutto a una prospettiva antropologica. In questo senso il rapporto con una qualsiasi matrice appartenente alla tradizione della danza, benché dichiarata, si risolve nel superamento di una tentazione filologica, con un richiamo, questo sì generazionale, al politico e a una sensibilità che piega la lettura del corpo in movimento a una ipotesi più estesamente culturale. Ciò che in questo quadro conta, dunque, non è la continuità o discontinuità con l’Excelsior di Manzotti, quanto piuttosto la creazione di Lombardo svela, attraverso un’indagine di carattere artistico che solo convenzionalmente chiamiamo “danza”, come quell’Excelsior sia ancora prepotentemente tra di noi, oggi, polverizzato nei nostri corpi, nelle relazioni, nei modelli di intrattenimento che assumiamo con una innocenza quantomeno problematica. E quanto quella tecnica si sia impossessata del nostro immaginario, quanto si sia radicalizzata verso il basso, fino a un dinamico trash. Excelsior, insomma, a dispetto delle accuse di concettualismo, ci invita ancora a riconoscere il principio di equivalenza tra corpo e pensiero, tra la grammatica della “danza” e la grammatica di un reale spinto fino al proprio esaurimento (in questo senso, nei primi anni Zero proprio <OTTO> di Kinkaleri in Italia ha fatto scuola).

A proposito di passato e di futuro, quello che mi auguro è che anche in Italia ci si trovi prima o poi d’accordo sul fatto, ormai anche banale, che l’arte coreutica possa accogliere il movimento del reale come composizione, con orgoglio e senza suscitare scandali; e che quest’arte di ricostruire il reale (un nuovo realismo?) in termini insieme cinetici e culturali possa tranquillamente avere la medesima dignità di un qualsiasi movimento riconoscibile nelle tecniche della danza. Perché non è più importante, ormai, definire cosa sia la “danza”, quella buona o quella cattiva; quanto accogliere il fatto che attraverso uno sguardo coreografico si possa interpretare il mondo nel segno di una autentica prospettiva artistica. Se la danza, nel suo insieme, è l’impulso primario che nel tendere al movimento realizza la vita, la coreografia, come afferma Marten Spangberg, è <<l’opportunità di favorire forme di navigazione nel mondo>>. E in questo senso è, per il coreografo, come nel caso dell’Excelsior di Lombardo, un atto di responsabilità artistica e politica.

Foto di C. Farina