A teatro non si dovrebbe mai essere osservatori impassibili di Giorgio Taffon

Essendo il teatro ancora un irrinunciabile punto di osservazione della società e di noi stessi, dove liberamente e per via poetica si dovrebbe attuare un processo di interpretazione e rielaborazione critica del vivere dell’uomo, come singolo e come essere sociale, non dovrebbe essere concesso passivamente a tutti noi (autori, attori, registi, spettatori, specie quest’ultimi) di reagire come semplici e incuriositi voyeurs della Vita di fronte a molte proposte sceniche. Cosa che è stata, come ben sappiamo, in parte, uno dei presupposti “teorici” del Naturalismo e del Verismo italiano di fine Ottocento. Tutto sta nel considerare il teatro, come io credo, soprattutto una critica, fatta assolutamente in pubblico, come già nell’antica Grecia, ed un’erosione eticamente stabilita di interessi costituiti, in quanto ritenuti nocivi, ingiusti, e pericolosi per il consorzio sociale, per l’umanità stessa. Se si riflette un poco, poiché tutti siamo alla ricerca della vera essenza dei valori primari che chiamiamo amore e pace, ci si accorge che quasi sempre in arte in generale e in particolare in quella teatrale, quando diviene vera e propria arte espressiva e non semplicemente “spettacolo”, accade che si riesce piuttosto a mettere in rilievo ellitticamente e negativamente le cose: a negare una negazione! Occorre, quindi, che uno dei primi requisiti dell’arte e del teatro sia quello di individuare con chiarezza, tramite la coerenza, l’organicità, la precisione anche tecnica, l’interesse negatore che si desidera e si tenta di colpire.

Da lunghi anni, forse da un centinaio d’anni, la crisi del Novecento, per alcuni il “secolo breve”, storicamente parlando, ci ha abituato alle tante parole composte col prefisso dis-, che indica un rovesciamento del senso buono, positivo, di una parola, e sottolinea una separazione, una rottura semantica: dis-sacrazione, dis-senso, di-vertimento, dis-armonia, dis-ordine, dis-cordia, dis-umano, dis-impegno, e ne potremmo aggiungere altre. Di certo, però, difficilmente incontriamo la parola disinteresse, in un’epoca che assolutizza la produzione e il relativo consumo, di beni materiali e immateriali, perché si opporrebbe alla parola interesse, ma non più inteso come interesse superiore, assoluto (la Storia, la Vita, la Divinità, l’Economia, intesa etimologicamente come “ordine della casa”), ma interesse particulare. Da ciò occorre che l’Arte individui con chiarezza, se e quando possibile, l’interesse come valore assoluto. Ne consegue, però, che si trattano le grandi parole Amore e Pace prive di un senso ben definito e assoluto dei termini, ma in modo dunque ellittico e per negazione: “odiare l’odio per o dell’amore”; dar “guerra alla guerra contro la pace”. Ovviamente simile ricerca di significato, essenzialmente storico, sociale, cambia dal momento in cui viene presentata l’opera artistica, al momento in cui viene recepita. Si crea così un nesso, un rapporto, una analogia fra il produttore dell’opera e colui che poi la recepisce e la interpreta, nello spazio-tempo a lui destinato: a teatro lo spettatore motivato, interessato, appunto. In più, l’interprete deve svolgere la sua interpretazione anche lui in modo chiaro, coerente, organico (specie quando lo spettatore è uno spettatore “critico”, o per mestiere o per personale esigenza).

Inoltre, a ben vedere, se la parola disinteresse è un po’ sparita nei vocabolari della vita pubblica, comunitaria, ed ora sempre più globalizzata, io credo che ciò dipenda dal fatto che essa è l’equivalente di una parola positiva: la parola “amore”, che nell’uso, nondimeno, è contraffatta dal suo contrario. Ma si pensi bene: interesse, poi, non avrebbe etimologicamente un significato positivo? E cioè lo “stare tra”; il condividere, il dar luogo a una trasversalità, a un flusso non divisivo ma unitivo, come accade in platea tra la scena e lo spazio degli spettatori? Ancora una volta, invece, si ricorre ad un uso negativo della parola, appunto al disinteresse, oggi poco usato, perché è lo “stare tra” che è poco corrispondente al vero.

Io credo che la parola “amore”, nello sbandieramento che comunque se ne fa, nelle varie contraffazioni, nelle retoriche con cui si usa, abbia sempre più il significato di “interesse camuffato”: una sorta di narcisistico amor proprio, che è poi l’opposto del vero amore, atto trans-personalizzante e transitivo (che parte, certo, da un soggetto che ha un suo ego, ma pronto ad andar oltre se stesso!). L’amor proprio è indicativo di una proprietà (essendo “proprio”) sollecita a tracciare attorno a se stessa un recinto dove finisce e viene perimetrato il proprio io; mentre l’atto d’amore inizia proprio sul punto in cui termina il proprio io. Purtroppo, in questa nostra epoca travagliata, fluida, ribollente, chi riesce a uscir fuori dal proprio perimetro?

In fin dei conti è al fine di recuperare il suo significato originario che l’amore si assimila al disinteresse, la cui urgenza è quella di annientare ogni ostacolo che si frapponga alla libera esplicazione dell’amore e della pace.

E per chiudere io credo che “osservare” dal teatro, che è atto creativo, la vita, la nostra vita, significhi ricercare sempre di essa per intuizione poetica i significati che aiutino a difenderla, in tutte le sue articolazioni, e a renderla per tutti un valore assoluto e irrinunciabile, un’apertura di senso costruttivo a partire dal superamento del proprio io.