“Territori da cucire” Intervista a Stefano Pasquini, Teatro delle Ariette di Chiara Crupi

Foto di Giovanni Battista Parente

Una compagnia che è anche un’azienda agricola, un teatro in mezzo ai campi nato come deposito attrezzi, spettacoli che si nutrono di autobiografia, intimità e frammenti di vita quotidiana: il Teatro delle Ariette, un’utopia realizzata nella provincia di Bologna, da quasi trent’anni produce – ed esporta anche all’estero – i suoi spettacoli dal “sapore” inconfondibile, che rielaborano forme antiche per tessere trame contemporanee. Paola Berselli, Stefano Pasquini e i loro compagni, produttori di pane e senso, lavorano il teatro come la terra e di entrambi si nutrono e nutrono. Nell’ascoltarli raccontare del loro operato, la prima impressione è di una grande pazienza e pacatezza: quella calma di chi sa coltivare, seminare ed attendere le risposte delle stagioni come quelle degli spettatori. Una simile caparbia pacatezza sembra nutrire il loro progetto Territori da cucire, nato nel 2015, che ripropone ogni anno l’idea partecipata di saldare insieme, con l’aiuto della gente del luogo, i diversi tessuti culturali che convivono nel comune della Valsamoggia. È un lavoro che gli artisti del Teatro delle Ariette preparano con dovizia durante tutto il corso dell’anno, coinvolgendo gli abitanti della comunità. I loro strumenti sono assolutamente riconoscibili: la fiaba, il clown, la narrazione, la poesia, il canto, il gioco. Il tutto sovvertendo gli schemi ed escogitando strategie che uniscono il divertimento alla riflessione: se i giochi a premi televisivi assopiscono le coscienze, escogitano un gioco in piazza, con l’intento di risvegliarle, propongono Beckett nelle piazze, e col sorriso “dissodano” questioni importanti, propongono domande. Territori da cucire dà i suoi frutti in estate ed è infatti in estate, in piazza, che dal 28 giugno al  26 luglio scorso, si sono svolti i differenti appuntamenti. Chiediamo a Stefano Pasquini di raccontarci l’esperienza.

Questo progetto ha a che fare con la piazza, con il territorio, si sviluppa fuori dal teatro. Perché la piazza?

Noi siamo sempre usciti dagli schemi degli spazi teatrali tradizionali, usando spesso anche spazi piccoli e privati: case, forni, attorno ad un tavolo, oppure negli ospedali, nelle scuole. Il progetto dei Territori da cucire approda da parecchi anni alle piazze, luogo simbolico di incontro della comunità, In questo caso lavoriamo con tutti gli attori e con tutti coloro che partecipano ai nostri laboratori: amatori non professionisti che noi chiamiamo semplicemente cittadini. Usiamo la piazza, il teatro, la casa o il capannone come luogo per incontrare il maggior numero possibile di persone. La piazza è anche il luogo dove puoi incontrare lo sconosciuto, quello che non sa nulla di letteratura. Ci interessa questo tipo di incontro.

Se dovessi definire il vostro gruppo, il vostro lavoro, il vostro teatro, la vostra compagnia, in poche parole, cosa diresti? Che obiettivi ha? Che valori ha?

Ci chiamano gli attori contadini. La nostra compagnia, il Teatro delle Ariette è anche un’azienda agricola. Siamo molto legati a quello che facciamo, il nostro è un teatro autobiografico. Facciamo spettacoli dal basso e raccontiamo le nostre esperienze. Spesso infatti sono gli elementi materiali della nostra vita le materie prime che utilizziamo in teatro.  In poche parole, potrei dire che il nostro è un teatro che cerca, privilegiando l’incontro fra attori e spettatori, di abbattere le barriere. Non ci sono separazioni di palco ma cerchiamo una grande vicinanza, prima attraverso il racconto delle nostre esperienze, poi mettendo in mostra un’autobiografia collettiva, che si può percorrere ed ascoltare.

Come è nata questa forma e questa visione del teatro che vi ha portato a vivere in campagna?

In campagna siamo venuti per caso. Io e Paola (Berselli) che è anche mia moglie, abbiamo lasciato la cooperativa teatrale dove lavoravamo a Bologna, nel 1989. C’era un senso di inadeguatezza. Volevamo fare teatro con la nostra storia. Qui c’era un podere abbandonato già da molti anni e noi siamo venuti a vivere in questa casa a coltivare questa terra, un’azienda di quattro ettari in una zona collinare molto svantaggiata.  Ecco così, in questa nuova vita, allevando animali, coltivando la terra, nel rapporto con la natura, probabilmente è ritornata la voglia di fare teatro, di condividere esperienze e abbiamo ricominciato, senza pensare, all’inizio, di essere professionisti. Ad un certo punto abbiamo creato uno spettacolo, Teatro da mangiare? che ci ha fatto ritornare professionisti. Facciamo spettacoli che portiamo in tournée in Italia e all’estero, Francia, Spagna. Poi una parte della nostra attività è dedicata ai cittadini del nostro territorio. Nella nostra sede portiamo avanti un laboratorio permanente gratuito per tutti coloro che vogliono partecipare, senza limiti di età e preparazione. Dal 2015 abbiamo cominciato a realizzare il progetto Territori da cucire. È dedicato ai territori della Valsamoggia, un’area, all’interno della città metropolitana di Bologna, che ha accorpato cinque comuni in uno solo. Abbiamo pensato di favorire, col teatro, la tessitura di una trama di relazioni che sembrava mancasse. Qualche anno dopo abbiamo deciso di coinvolgere anche i cittadini nella creazione teatrale e quindi dal 2018 abbiamo avviato il progetto di teatro di comunità dove assieme ai cittadini costruiamo l’evento da restituire a tutto il territorio.

Per evento esattamente cosa intendi? Fate uno spettacolo insieme?

Lo facciamo assieme. È un varietà, un progetto restituito alla comunità perché presentiamo lo spettacolo che costruiamo assieme ai cittadini, nelle piazze, nel nostro territorio. Quindi dai cittadini ritorna ai cittadini, alla nostra comunità, anche se naturalmente è aperto e tutti possono partecipare. Creiamo uno spettacolo dove lavorano, recitano, partecipano i cittadini. Non ci sono racconti, un varietà militante, un po’ meno disimpegnato di un varietà di intrattenimento. Però c’è musica, c’è qualcuno che racconta, ci sono giochi. Ma l’incontro con il varietà è, naturalmente, fatto un po’ alla nostra maniera.

Foto di Alessandro Accorsi

Cosa hanno culturalmente in comune questi territori e cosa li separa?

Sono confinanti, erano cinque comuni della zona collinare di circa 5000 abitanti ciascuno. Sono un’area culturale, hanno in comune il fatto di essere ai margini della metropoli quindi di fatto vi è un grande pendolarismo verso Bologna, in quanto la loro vocazione rurale agricola non è poi così forte, oggi. Continuano ad essere territori rurali, ma di fatto le persone che ci abitano gravitano in città, ci sono forti contraddizioni. Si sono ripopolati per quel fenomeno di espansione della città verso l’entroterra a causa dei prezzi alti. Quindi ci sono paesi che avevano un’identità e che adesso la stanno cercando. Portiamo di solito uno spettacolo che chiamiamo “Varietà” che, come un varietà televisivo, ha diverse “puntate”, una per ogni città. Io e Paola, Maurizio (Ferraresi) e Irene (Bartolini) abitiamo qui, nel Comune di Valsamoggia.

Cosa significa varietà televisivo?

Lo chiamo ironicamente varietà “televisivo”, naturalmente non ci sono telecamere ma adesso è un genere assorbito dalla TV. Il varietà era una forma altissima. Basti ricordare il Gran Pavese Varietà a Bologna (e non solo a Bologna), nato nel 1982 al circolo Arci “Cesare Pavese”, con Patrizio Roversi e Syusy Blady e poi anche con Vito e i Gemelli Ruggeri (Luciano Manzalini ed Eraldo Turra). Il nostro “Varietà” lo abbiamo chiamato ironicamente varietà militante perché vogliamo davvero farci la domanda politica: «Cosa facciamo? Che cosa sta cambiando? Cosa sta succedendo nel nostro presente?». Ne parliamo in tanti modi, non solo attraverso il racconto di quello che ci sta attorno ma anche di quello che capita a noi, come ci sentiamo. Un insegnante magari racconta come si sente nel suo lavoro, come è cambiata la scuola negli ultimi anni… C’è ad esempio un intervento in cui ci trasformiamo in una massa di turisti che devasta un autogrill, dato che adesso siamo tutti turisti: il turismo sta devastando le città. Gli elementi sono quelli, lavoriamo, costruiamo uno spettacolo che non ha una struttura narrativa, non racconta una sola storia, ma ha dei frammenti che parlano di noi. Abbiamo cercato punti di contatto con le nostre vite, fili che abbiamo intrecciato. Ci muoviamo freneticamente, poi con questa guerra siamo tutti leggermente a disagio. Crediamo che il teatro abbia il compito di farsi queste domande e di porle ai cittadini. Ci lasciamo su questa domanda ed anche per questo siamo militanti: vogliamo reagire? È chiaro che l’ironia è una arma, o meglio uno strumento, ci aiuta ad affrontare la vita, a capirla.

Vorrei capire come arrivate allo spettacolo.

La gestazione è continua e inizia durante il laboratorio permanente che dura tutto l’arco dell’anno. Il laboratorio funziona, ci sono persone che sono con noi da quando abbiamo cominciato, persone che hanno un interesse forte rispetto al teatro. Poi, molti si sono avvicendati ma c’è un nucleo. Ogni anno partiamo, proviamo, facciamo ricerca, prepariamo dei materiali. E però in queste ricerche ci sono dei momenti di esercizio, di lavoro, utilizzando gli strumenti dell’attore. Da aprile il laboratorio si apre a tutti i cittadini per la costruzione del progetto all’interno del territorio. Prepariamo una coreografia, da una parte si propongono testi, poi si decide quali proporre e come proporli, se a più voci, a una voce sola, in maniera più statica o più dinamica, si prova col microfono. Dall’altra si propone, come a scuola, un tema: in questo caso è “cosa ci sta succedendo?”. Poi, da lì si parte per l’elaborazione: come usare questo materiale. Qualcuno scrive, poi si elabora, questo è il processo. Ad esempio, per affrontare il testo di Aspettando Godot, abbiamo lavorato attraverso la ricerca del proprio clown, una ricerca che noi abbiamo intrapreso da molto tempo anche in altri progetti. E attraverso l’improvvisazione si arriva a strutturare dei frammenti. Io e Paola ci occupiamo di mettere insieme i frammenti. Sono cose molto concrete, non è che ci perdiamo in interpretazioni, usiamo quello che funziona. Possiamo definirlo un laboratorio di cittadinanza attraverso l’espressione.

Come conducete il laboratorio? Ci sono soltanto attività attoriali, espressive o fate anche scenografia, costruzione? Cosa volete insegnare o trasmettere?

Partiamo dal principio che non abbiamo niente per insegnare. Si può imparare. Noi portiamo la nostra esperienza. È chiaro che ci prendiamo la responsabilità di essere coloro che propongono delle cose. Però è come iniziare un dialogo. Noi iniziamo il dialogo e loro proseguono con noi. Non è un corso di formazione professionale, ma un laboratorio didattico aperto. Il lavoro è prevalentemente espressivo, perché il nostro è un teatro molto povero, non ha grandi scenografie. A volte costruiamo qualche piccola cosa da portare in giro come elemento identificativo del nostro spettacolo, ma sono piccole cose. Proponiamo dei temi e da lì si parte per l’elaborazione.

Foto di Giovanni Battista Parente

 Come lavorate rispetto alla geometria della piazza? Avete un palco?

Non c’è un palcoscenico. In questo ci avviciniamo al teatro di strada, usiamo uno spazio condiviso. Immagina un rettangolo o un quadrato: un lato è quello per noi e sugli altri tre lati il pubblico. Noi agiamo in mezzo. Siamo assolutamente a contatto con gli spettatori. Addirittura, abbiamo la nostra sigla mentre la scena è vuota e noi siamo alle spalle degli spettatori.

Cosa cambia lo spettacolo al passaggio da una città all’altra?

C’è un aspetto variabile nel senso lo spettacolo un po’ cambia da città in città, da paese, in paese, da contesto a contesto. Facciamo cinque “puntate” e sono tutte diverse. Alcuni appuntamenti sono ripetuti, altri cambiano. Ad esempio, abbiamo sempre l’appuntamento con i protagonisti di Aspettando Godot di Beckett, ma sono scene diverse. La settimana dopo, in un altro luogo c’è un’altra scena. Questo vale anche per i materiali di Giuliano Scabia, con la storia de Il cavallo e il cavaliere. Se qualcuno vede lo spettacolo cinque volte, vede il proseguimento di una storia, come un varietà televisivo a puntate. Le “puntate” sono tutti i mercoledì e hanno appunto la caratteristica dell’appuntamento infrasettimanale tipico del varietà.

Foto di Alessandro Accorsi

Il lavoro ha una struttura diversa rispetto agli anni precedenti?

Negli scorsi anni lo spettacolo era completamente diverso, anche se con la stessa finalità. Coinvolgeva diverse persone e diversi temi, c’era comunque un nucleo di persone. Del racconto degli anni precedenti abbiamo usato la struttura del varietà. Quest’anno abbiamo proseguito il lavoro che avevamo cominciato la scorsa edizione e abbiamo consolidato due pilastri della nostra drammaturgia, Beckett e Scabia. Poi abbiamo introdotto delle novità. Gli altri materiali sono autobiografici. Abbiamo anche un gioco a premi, il gioco del Chi l’ha scritto: bisogna indovinare chi ha scritto quella frase o quel brano, scelto dai partecipanti del nostro laboratorio. È chiaro che a noi interessa il testo, però ironicamente giochiamo anche un po’.  Niente di nuovo, ma cerchiamo di mettere l’energia e il divertimento anche nelle nostre azioni più serie. L’intento è comunque di farci delle domande sul nostro presente, cioè cosa sta succedendo?

Mi piacerebbe capire qualcosa di più della vostra relazione con Beckett e Scabia, come li avete scelti, perché vi accompagnano?

Scabia era un grande amico e ci regalava sempre per Capodanno un libretto scritto da lui, autoprodotto, con le illustrazioni di Riccardo Fattori, in cui Giuliano era il protagonista, era in fondo autobiografico. Noi abbiamo pensato di scegliere alcuni di questi canti che sono come delle favole, in cui c’è un cavallo e un cavaliere, che vanno in giro per il mondo, e parlano con le montagne, con i cinghiali, con le oche, le costellazioni intervengono… tutte le entità, direi, hanno diritto di parola nel suo grande parlamento. Ed è una cosa meravigliosa perché pur nella leggerezza, nel suo grande giocare, c’è una profondità filosofica che credo ci faccia del bene. Con i partecipanti ai laboratori è molto bello e viene molto naturale lavorare con le sue parole. Noi abbiamo scelto una forma corale per raccontarle, a più voci, che però sono come un’unica voce, perché si passano di riga in riga il testo. Questo ci dà anche l’occasione di fare qualcosa insieme agli spettatori perché ci sono piccole poesie che cantiamo tutti insieme. Per quanto riguarda Beckett, credo che sia assolutamente contemporaneo, penso che Aspettando Godot c’entri moltissimo con il nostro presente. Beckett, pure se con la lametta, è innamorato dell’essere umano, lo sa guardare profondamente. Inoltre, non è intellettualistico, è molto concreto… abbiamo capito che le sue domande ci aiutavano a farci le nostre sul presente. Abbiamo lavorato sulla scoperta del proprio clown perché in ognuno di noi c’è qualcosa di Vladimiro o Estragone. Questa scoperta è quella che ci piace e che portiamo nelle piazze. La metà della gente non conosce Beckett, non conosce Aspettando Godot, però di fronte a queste cose ha una reazione forte. È qualcosa che ci riguarda, che non sta nella letteratura della noia, è nella vita.

Foto di Giovanni Battista Parente

Per tutte le informazioni sul Teatro delle Ariette rimandiamo al sito: teatrodelleariette