Sognare ed essere sognati: il mondo senza specchi di Canetti e Longhi di Katia Ippaso

Foto di Serena Pea

In quest’epoca di segni molli e confusi, viene da chiedersi che senso abbia la parola “contemporaneo”. Nell’abuso massmediatico del termine, va spesso a coincidere con “attualità”. Noi che ci occupiamo dei linguaggi della scena, registriamo un generale smarrimento anche da parte degli artisti stessi, molti dei quali cercano disperatamente di rincorrere “l’aria dei tempi”, da non confondere con “lo spirito del tempo”. Si cerca cioè di rendersi attrattivi proponendo magari qualcosa che è “di bruciante attualità”, inseguendo l’esempio dei miliardi di instant book o instant movie che si stagliano sul basso orizzonte di quegli accadimenti capaci di destare curiosità e voyeurismo. È all’interno di questo sistema bulimico e di breve respiro che si è affermata anche la dittatura della breve durata. Uno spettacolo non può durare più di sessanta minuti, preferibilmente monologo, al massimo dialogo, alla fine pure senza attore va bene, solo sons et lumiéres meglio ancora, basta che qualcuno possa trovarci il richiamo all’ondivaga, monomaniaca, cosiddetta “attualità”. Questo preambolo per dire che uno spettacolo come La commedia della vanità di Elias Canetti, regia di Claudio Longhi, che abbiamo visto al suo debutto a Modena (Teatro Storchi), si distingue per la sua inattualità. Se si fosse messo in scena il testo nella sua interezza, avremmo avuto un’opera della durata di sette ore e mezzo. Invece Longhi, con il rigore che contraddistingue il suo lavoro di regista-studioso, ha trovato il modo di ridurlo a quattro ore, senza far sbandare l’arco drammaturgico e conservando il rispetto filologico del testo.
Canetti scrisse La commedia della vanità tra il 1933 e il 1934, in piena Germania nazista. Nell’opera che fu pubblicata solo nel 1950 (e rappresentata per la prima volta nel 1965), il futuro Premio Nobel per la Letteratura fa cadere un fiume di personaggi che, in varia misura, rendono conto della categoria psicologica-estetica dell’”estenuo”. Non c’è limite alle metamorfosi del potere. Quello che accade somiglia a un lungo sogno da cui non ci si risveglia mai, dove comandanti, comandati, comparse, mestieranti, esemplari della famiglia (nocciolo duro di ogni sistema claustrofobico), compagni di scuola, le figure di una vita senza giardino, si danno convegno sull’orlo del precipizio, assediando il dormiente con nefandezze e attrazioni di varia forma. Se Sigmund Freud vede nei due dispositivi psichici della “condensazione” e dello “spostamento” i principi compositivi su cui si fonda il sogno, possiamo dire che la riduzione di Longhi opera secondo questo stesso principio, enfatizzando le tracce oniriche della commedia.

Foto di Serena Pea

Il luogo scenico in cui il regista decide di ambientare l’opera, il circo, si avvolge su questa materia come un guanto leggerissimo che può diventare gigantesco o piccolo-piccolo, lasciando che per ogni corpo si trovi l’esatta copertura visiva, il giusto punto di luce. Esteticamente, Longhi dice di essersi ispirato a Lola Montès, il film di Max Ophüls del 1955. Mentre dal punto di vista musicale primeggiano il cymbalon e il violino, nella costruzione di una partitura in cui anche la voce umana gioca il suo ruolo sinistro: e c’è, in questo, un preciso riferimento al concetto canettiano di “maschera acustica”: lo scrittore era infatti convinto che la vera identità di un individuo fosse rivelata dalla sua voce.
Ma la voce non può esistere senza immagine. Pena la follia, la maledizione, l’uscita dal mondo. Un individuo è voce e volto. E per osservare il proprio volto c’è bisogno di uno specchio. Cosa accadrebbe quindi in una società in cui fossero banditi gli specchi? È da questo postulato che parte La commedia della vanità. Ne Il gioco degli occhi. Storia di una vita, Canetti descrive una mattinata dal barbiere: osservando l’estenuante contemplazione dei volti allo specchio, come se tutti quegli uomini non si stancassero mai di mirarsi e rimirarsi, arrivò a chiedersi «che cosa sarebbe accaduto se improvvisamente un divieto avesse privato la gente di un momento che pareva il più prezioso di tutti… Era divertente immaginare le conseguenze di un simile divieto. Ma quando si arrivò al rogo dei libri in Germania, quando si vide che razza di divieti venivano emanati e applicati all’improvviso, con quale imperturbabile pervicacia si poteva impiegarli per la produzione di masse entusiaste, allora fu come se il fulmine mi avesse colpito, e il divieto contro gli specchi cessò di essere un gioco e diventò una cosa seria».
La commedia della vanità sviluppa quindi le possibili trame – deviazioni, infelicità, sotterfugi, furti, comportamenti depressivi o euforici, spacci clandestini, servilismo, deliri sessuali – che si possono sviluppare in seguito al divieto totalitario di conservare specchi nelle case. Quello che, come spiegava Canetti, poteva essere un puro divertimento, diventa qualcosa di maledettamente serio, che il registro espressionista marchia a fuoco: chi fabbrica specchi viene mandato a morte. Come dietro questa commedia si celi un discorso sullo sterminio di massa, sull’omicidio di ogni forma di resistenza umana, si comprende strada facendo. E la questione dello specchio non è di certo pretestuale. Lacan ci ha spiegato bene come lo specchio rappresenti uno strumento determinante per la costruzione dell’identità: studiando il comportamento dei bambini tra i 6 e i 18 mesi, parlò di tre fasi: un primo stadio in cui il piccolo dissocia l’immagine da se stesso, cercando dietro lo specchio il volto che ha visto di fronte a sé, una seconda fase in cui l’immagine è solo un oggetto fuori di sé, infine un terzo stadio in cui realizza che l’immagine riflessa nello specchio è proprio la sua.
I comportamenti dei personaggi di Canetti perdono letteralmente l’identità e girano tutto intorno come mosche cieche, mentre il regime si muove tra questi insetti con la sua tipica bulimia sessuale, attraendo a sé masse senza più volto. Fino a che una folla di uomini che ha perso la coscienza di sé si abbandona alla forza brutale dell’inconscio arrivando a costruire una statua del dittatore.

Foto di Riccardo Frati

Per tutta la durata dello spettacolo, lo spettatore viene immerso in un caleidoscopico montaggio di attrazioni, che si sviluppa in tutte le direzioni. Una passerella da Teatro Nō lega palcoscenico e platea, e si ha fortemente l’impressione di essere parte del gioco teatrale. Non importa che si segua perfettamente questa o quella coppia scenica, questo o quel quadro, è l’insieme a destare meraviglia. Grazie alla sapiente orchestrazione del regista, che mostra di saper dominare il corpo plurale dei suoi 23 interpreti, conducendoci in un mondo minaccioso: il nostro. Perché niente è più “contemporaneo” della capacità di osservazione e rappresentazione dei comportamenti umani, che non possono mai essere archiviati come passati perché costantemente, date certe condizioni, si ripetono. Fare i conti con il Novecento attraverso questa “inattuale” fantasmagoria di Canetti è un’impresa titanica, difficilmente replicabile con questi numeri e queste forze in campo. L’esperienza che ci porta a fare come spettatori è simile a quella descritta da Borges quando parla dell’uomo che si sveglia improvvisamente nel sogno di un qualcun altro.

 

La commedia della vanità

di Elias Canetti,
traduzione Bianca Zagari
regia Claudio Longhi
con Fausto Russo Alesi, Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Aglaia Pappas, Franca Penone, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi
e con Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner,
Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile,
Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
violino Renata Lackó
cymbalon Sándor Radics
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Fondazione Teatro della Toscana, LAC Lugano Arte e Cultura nell’ambito del progetto Elias Canetti. Il secolo preso alla gola.

Visto al Teatro Storchi di Modena.

Piccolo Teatro Strehler, Milano, fino al 26 gennaio 2020.

Teatro Argentina, Roma, dal 29 gennaio al 9 febbraio 2020.