San Ginesio, o la scommessa del teatro di Carlo Lei

Foto di Ester Rieti

Invitato a un festival, mai cedere alla malinconica tentazione di chiudersi in albergo, nemmeno per scrivere: scendere nelle strade anche se fa caldo, anche se la sensazione è di girare a vuoto, in quelle prime ore solitarie, mettere gli occhi attorno. Poco per volta abituarsi alla geografia degli spazi, alla pendenza delle vie, al costume e ai rapporti di forza dei bar in piazza, sul corso, alle facce di chi sceglie l’uno o l’altro. Farsi anche le prime rudimentali classifiche, la chiesa più bella, la strada più nascosta, dove c’è sempre un venticello, il balcone più verdeggiante, il caffè più buono; identificare il tabaccaio e dove comprare il regalino da riportare a tuo figlio. Poi, con un po’ di coraggio in più, cominciare a darsi attorno anche tra le persone: riconoscere i tecnici mentre si spostano da uno all’altro palco, poi gli attori e i loro occhiali da sole, gli altri critici, appesi a badge o borsette. Salutare in giro, anche alla cieca, anche in patetici controtempi.
San Ginesio (MC) non ha un teatro, essendo il suo, dedicato curiosamente a Giacomo Leopardi, attualmente inagibile. Ma ha un festival, nato con gli auspici poco rosei dell’anno 2020 da un’illuminazione di Remo Girone che ha acceso il sindaco e i suoi collaboratori: il santo protettore degli attori non avrebbe una manifestazione ad onorarlo nel paese omonimo? Se c’è qualcuno che crede al potere di trasmissione del fuoco delle coincidenze è Isabella Parrucci, già in AMAT e in consiglio regionale, ora funzionario della Regione Marche e presidente del Ginesio Fest. «Mia figlia va alla materna qui: sono in undici nella sua classe», dice tanto arrabbiata quanto preoccupata. E così le tante persiane chiuse, lasciate così da quell’estate del 2016 che ha costretto persino la chiesa della Collegiata alle catene e controventature in legno, in acciaio, per scongiurare ulteriori crolli in caso di altre scosse, lei vorrebbe che si riaprissero.

Per gentile concessione dell’Ufficio Stampa del Festival

Nelle strade, la sera, le luci, oltre quelle pubbliche, sono poche: tra salite e discese, non mancano vicoli trafitti da impalcature per la ricostruzione, scuri sigillati, portoni che al citofono hanno fatto le ragnatele e il muschio alla soglia. E quelle tipiche cornici di finestre orfane di vetro, al cui interno svolazza uno straccio di tendina. «È lo spopolamento che bisogna vincere. Sennò che mi do da fare a rimettere a posto le scuole?» guizza Parrucci in quell’accento solare con cui la senti attraversare la piazza per chiamare i giovani collaboratori del festival a raccolta. È attraverso la cultura, insiste, che si possono far riaprire quelle imposte serrate, e l’albergo centrale, acquisito recentemente dal comune, e tutti i negozi del corso che ancora non hanno ripreso le attività: se il pubblico del Ginesio Fest cresce, cresce anche il bisogno dei servizi, e può decollare davvero la destagionalizzazione, come quella a cui punta un progetto con fondi dal PNNR che si appoggia su un vecchio edificio, ex istituto scolastico “Renzo Frau” da riconvertire in foresteria e aule per masterclass e incontri per tutto l’anno. Non è l’unica a pensarla così, se i quadri salvati dalla Collegiata e da altri edifici inagibili sono stati tirati fuori dai magazzini ed esposti in sicurezza in altre sedi, se l’accademia dello Stabile di Torino ha mandato i suoi allievi a un laboratorio con Filippo Timi e se il bando per il Leopardi è stato finalmente aggiudicato e i lavori sono prossimi a partire. E se la più odiosa disdetta per Parrucci è non essere ancora riuscita a far riaprire la Pinacoteca, nella cui struttura una trave di legno va preservata e non può essere sostituita, secondo la Sovrintendenza (e lei «Ma è marcia! Marcia!», non si capacita, e intanto adocchia il Convento di clausura, vuoto, le poche suorine trasferite a Fermo dopo il sisma).

Foto di Ester Rieti

Per il secondo anno la direzione artistica del Ginesio Fest, che in quest’atmosfera di amore e rivalsa, di generosità e campanilismo rampante, è affidata a Leonardo Lidi, che ha operato una scelta di artisti attorno al tema eterno della maschera: artisti riconosciuti e premiati, tutti portatori, tra le altre cose, di speciale valore nell’interpretazione, accompagnati da un salto nel non-più-futuro con una maschera della realtà virtuale, strumento al centro della performance di Giulia Ottaviano e Alba Maria Porto di Asterlizze La stanza. Esperienza d’archivio in VR.
Giuliana Musso e la Piccola Compagnia Dammacco portano in scena due lavori ciascuno, in una doppia mini-personale istruttiva per il pubblico e probabilmente anche per gli stessi autori. Musso fa La scimmia, che meriterebbe un racconto a parte per lo straordinario peso specifico del materiale letterario, frutto di un instancabile accumulo di materiali anche dove sembra pura arte di variazione sul tema e per la qualità ibrida ma vincente della relazione palco-platea e Mio eroe; Balivo/Dammacco presentano Esilio e La buona educazione. C’è poi, oltre all’One shot show uscito dal laboratorio di Timi, Sulla morte senza esagerare del Teatro dei Gordi e, a chiudere quest’edizione 2023 Venere e Adone di Roberto Latini, oltre alla cerimonia di premiazione “all’arte dell’attore”, il premio ginesino attorno a cui è nato tutto, consegnato a Lino Musella e a Sara Putignano da Remo Girone, presidente di una giuria in cui spicca il nome di Rodolfo di Giammarco. I pomeriggi sono pieni di eventi per ragazzi e bambini, tra laboratori e teatro per tutte le età (ci è capitato di assistere a Party Time di Pasquale Marino, un clown-papà di una bontà programmaticamente disarmante, dolce senza sdolcinatezza tanto con il suo bebè orsacchiotto quanto con il suo pubblico complice, capace di far cadere ogni resistenza, di regalare minuti scombinati e fitti di sorrisi sulle tracce minime di una melodia breve, di un “oh” di stupore reiterato, di un gesto contagioso).

Foto di Ester Rieti

Così Parrucci e Lidi immaginano probabilmente un San Ginesio di domani. Bambini vestiti da clown che si aggirano per il paese, Girone che fuma placidamente una sigaretta dopo l’altra al bar centrale, seduto al tavolino con la consorte, mentre alla mensa scolastica continuano a riunirsi attori, critici, tecnici, organizzatori, con l’acqua dentro quelle larghe brocche di plastica colorate che hanno visto generazioni di affamati ragazzini in grembiule – oggi, come primo piatto, lo scandalo di un minestrone freddo, a cui nessuno ha l’ardire di opporre un diniego. Giuliana Musso, sfilata dal corpo la “maschera integrale” della sua scimmia, parla agli studenti dello Stabile torinese, li spiazza in pochi secondi tirando le somme del proprio percorso a larghe ondate, insegna il «piacere, perché nel godimento si trova la verità», lei «come la maestra di una volta, che insegnava a scrivere ma anche ad allacciarsi i bottoni» e si commuove quando nomina gli spettacoli che ha deciso di togliere dal repertorio.
È difficile dire se di un festival l’atmosfera percepita attraverso le parole scambiate e i passi portati attorno in un paio di giorni sia autentica, o se quell’entusiasmo delle cose che nascono sotto gli occhi sia appannaggio esclusivo di chi le ha pensate, sia abile lavoro di comunicazione. Il sospetto istintivo è sempre che i sorrisi di chi ha successo si basino su chi lavora senza alzare lo sguardo, perché non ne ha la forza o ne ha perso l’abitudine. Ma intanto il pubblico cresce ad ogni edizione e un piccolo gruppo di quindicenni porge il biglietto per lo spettacolo serale, mentre un pugno di amici li guarda stranito, forse curioso, salendo verso la piazza; e c’è chi ha fissato la stanza all’agriturismo per l’intera settimana, pur non essendo del mestiere. Forse il disequilibrio di un paese a cui manca ancora la piena normalità (la “sala stampa” è il vecchio bar dell’albergo abbandonato, e «non abbiamo un “vero” piano B per gli spettacoli» – confessano – «se in caso di pioggia non si potesse usare il chiostro»), e che pure si concede un festival di teatro, un paese che anzi crede di potersi risollevare grazie a un simile lusso, è un caso di studio, o almeno un cavallo pazzo su cui arrischiarsi a puntare.