Rivediamoci su “Black Mirror 6”: non è poi così lontano di Anna Maria Sorbo

Foto Netflix

Come reagireste se, accingendovi a scegliere una serie da guardare dal catalogo on-demand comodamente seduti sul divano, scopriste che tra le ultime uscite ce n’è una che parla proprio di voi e non certo in maniera lusinghiera? È questo il what if di Joan Is AwfulJoan è terribile, l’episodio che apre la sesta stagione di Black Mirror. La Joan in questione, tu guarda la coincidenza, lamenta con l’analista di non sentirsi protagonista della propria storia di vita e quella stessa sera, quasi che qualcuno lassù in alto l’avesse ascoltata (ma non la ami), premuto il tasto play si ri-vede in tv praticamente in tempo reale, inchiodata alla sua ordinarietà, esposta al ludibrio di qualunque spettatore (abbonato). E questo, per avere in fase di registrazione accettato “termini e condizioni” della piattaforma di streaming globale Streamberry (inventata neanche troppo), senza leggerli (ne sapete qualcosa?), cedendo così ogni diritto sulla sua immagine e sui suoi dati personali. Sullo schermo a interpretarla è niente di meno che la famosa attrice Salma Hayek, salvo poi scoprire mentre la sua esistenza – quella vera – rovina miserabilmente che si tratta di un deepfake della star hollywoodiana e che il tutto è registrato in CGI, a partire da una Joan “sorgente”. Un incubo e un perverso meccanismo a cui si può porre fine solo con un atto di sabotaggio d’altri tempi.

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Dei cinque nuovi episodi da poco disponibili su Netflix, Joan è terribile è senza dubbio quello che ci marca più da vicino e suona maggiormente inquietante. In epoca di IA, la verosimiglianza è fortissima. La tecnologia – non si fa che ripeterlo ed è anche il punto di partenza del creatore della serie Charlie Brooker – non è un male in sé, ma da innovazione ad assuefazione e distorsione il passo è breve e l’eccesso di consumo e voyeurismo che caratterizza il nostro rapporto con i media lo rende brevissimo, finendo per fagocitarci. Lo si vede nel secondo episodio, Loch Henry, dove una coppia di giovani filmmakers si reca nel villaggio scozzese patria di lui e dove risiede ancora sua madre, per girare un documentario a tema ambientale. Senonché la ragazza si appassiona talmente al racconto di un serial killer che decenni addietro è stato il terrore del luogo da convincere il fidanzato a cambiare programma: realizzeranno un true crime, perché orrendo è uguale a irresistibile, “è qualcosa che vediamo tutti, qualcosa che tutti vogliono vedere davvero”. Inutile dire che gli sviluppi saranno nefasti (per le persone, non per il film che sarà un successo), traducendo in sinistra profezia anche gli ordinari consigli da producer di rete: “dov’è il gancio? Va esplorata la prospettiva personale, serve materiale inedito”. Lo troveranno nel salotto di casa, in una collezione di VHS morbosamente ossessiva, che porterà a galla una verità raccapricciante sepolta in formato analogico: standard per antonomasia domestico che di tranquillo qui non ha nulla.

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Con i successivi tre episodi, Brooker retrodata la sua ispirazione e spariglia un po’ le carte rispetto al filone tradizionale, volutamente eliminando, come ha affermato, «alcuni dei presupposti fondamentali» blackmirroriani per affrontare tematiche comunque essenziali da un’altra prospettiva, quella del passato, anche  virando verso l’horror e il sovrannaturale come in Mazey Day e Demon 79, l’uno ambientato negli anni Duemila, «prima che tutti avessero una macchina fotografica nel telefono», l’altro agli esordi dell’era thatcheriana, nel 1979. Un anticipo di una nuova fase del cult antologico o il segno che la vena si è esaurita? L’opinione si è già divisa tra questi due estremi. Certo è che a fronte di un mondo dove la sospensione dell’incredulità da un pezzo ha superato i confini della teoria narratologica, un’esperienza come la pandemia ci ha mostrato che la fantascienza abita già tra noi e gli algoritmi ci dominano, l’universo di Black Mirror non è più, non poteva essere più, distopico del nostro presente. «Fanno di tutto ormai», dice una gentile libraia alla replica di Cliff/David nell’episodio Beyond the Sea. Qui, in un 1969 alternativo al nostro, un’avveniristica invenzione consente a due astronauti in missione nello spazio di teletrasportare le loro coscienze in “repliche terrestri”, permettendo loro di continuare a interagire con mogli e figli e col resto del mondo durante i sei lunghi anni in orbita. Ma quando una tragedia inimmaginabile si abbatte su uno di loro, per mano di una setta stile Manson che mira a “preservare l’ordine naturale” purtroppo col sangue, le emozioni e passioni che si smuovono sono tipicamente umane, concrete, reali e non virtuali. Forse è questo il senso ultimo o l’ultima sequenza di “istruzioni per l’uso”: la necessità di guardarci attraverso lo specchio nero quando la tecnologia smette/rà di funzionare.