Riposizionare l’arte e restituirle un luogo proprio: conversazione con Roberta Nicolai di Letizia Bernazza

Foto di Margherita Masè

Non c’è alcun dubbio nell’affermare che Teatri di Vetro rappresenti un luogo privilegiato per indagare la scena contemporanea. Giunto alla sua tredicesima edizione, il festival ha avuto negli anni il merito – grazie al lavoro indefesso della sua Direttrice artistica Roberta Nicolai – di essere un punto di riferimento per artisti, critici, studiosi e spettatori. E questo perché, a mio avviso, TDV non è una semplice “vetrina” dove “passano” i lavori di attori, danzatori, performer, ma perché al contrario, negli anni, ha saputo difendere il suo ruolo: rappresentare una fucina all’interno della quale indagare i “processi creativi” che si nutrono di sguardi “condivisi”, di progetti e di materiali in progress che, per la loro stessa natura di non essere “definiti a priori”, innescano percorsi “aperti” all’interno e all’esterno del gruppo di lavoro. Il tutto, però, agito con una metodologia rigorosa e con degli obiettivi precisi, entrambi indispensabili per concorrere a definire “un sistema” dentro cui muoversi per attivare pratiche specifiche che, come dichiara la stessa Nicolai durante la nostra conversazione, «inevitabilmente coinvolgono aspetti metodologici, artistici, tematici e relazionali». Una ricerca costante per riempire «il cuore di un sistema vuoto» che dovrebbe nutrirsi meno di like e di consenso sui social e più di una presenza “reale” di tutti noi per essere partecipi davvero nel mondo dell’arte e non solo.

Nel programma della tredicesima edizione di Teatri di Vetro si legge: «TDV13 è un corpo trasformato.
Una proposta plurale. Quattro sezioni per dialogare con la creazione contemporanea e ingaggiare spazi e contesti territoriali. Un piccolo sistema in cui Oscillazioni è al tempo stesso cornice e chiave, meta e luogo di destinazione del tutto». Come si conciliano nella scena contemporanea, a tuo avviso, pluralità e identità?

Le quattro sezioni sono le applicazioni di uno stesso ragionamento, strade diverse per affrontare questioni e aspetti diversi. Insieme costituiscono un sistema progettuale e metodologico.
Con la parola “sistema” non intendo qualcosa di fissato e rigido, piuttosto uno schema – provvisorio, in passato parlavo di mappa con un’accezione se vogliamo più visiva e meno interconnessa – che consente l’avvio dell’indagine, della ricerca. Senza questo schema e senza il suo rigore sarebbe difficile condurre qualsiasi investigazione. Ed è appunto il “sistema” la condizione che permette di delimitare il campo – spazio e tempo – delle azioni e dare forma nella materia all’intuizione.
Ognuna di queste parti assolve ad una funzione specifica perché consente e attiva pratiche specifiche che inevitabilmente coinvolgono aspetti metodologici, artistici, tematici, relazionali.
Tra le quattro sezioni convive un policentrismo – ognuna è calata dentro un determinato fare, contesto e vi agisce secondo logiche proprie – e al tempo stesso ce n’è una, Oscillazioni, che si configura come la meta, il fine e “informa” tutto il resto, tutto ciò che la precede.

Foto di Margherita Masè

 

Ad esempio, Trasmissioni. È un progetto sulla trasmissione in danza. Ogni anno seleziono tre coreografi che in una residenza, con ampi spazi di condivisione, conducono uno stage con classi diverse di allievi. Non si tratta però di un progetto di formazione, anche se la formazione è inevitabilmente uno degli strumenti o una delle azioni possibili. Al centro di Trasmissioni insiste la questione del processo creativo. E questo sposta le pratiche. Ogni coreografo durante la settimana di lavoro condivide materiali del proprio progetto attuale con interlocutori esterni – danzatori, performer, attori. Gli ultimi due giorni invito studiosi, critici, operatori e altri artisti e ogni coreografo apre allo sguardo esterno due momenti: una sessione di lavoro di trasmissione e un piano performativo. In entrambe le aperture ciò che viene mostrato è nel mezzo del suo accadere, è processo. Poi se ne parla tutti insieme indagando, attraverso la divisione dei due piani strettamente interconnessi – quello della trasmissione e quello del performativo – di cogliere e interrogare il “sottile” tra pre-performativo e performativo.

 

Foto di Piero Tauro

 

Questo è solo un esempio. Ognuna delle sezioni è costruita progettualmente, cioè organizzata nello spazio e nel tempo attraverso pratiche proprie e al tempo stesso afferisce ad un sistema in cui Oscillazioni ha il ruolo multiplo di parte e meta tale da “informare” tutto il resto e fare in modo che ogni pratica sia strutturata in base ad un unico obiettivo: indagare la scena contemporanea a partire dai suoi processi.
Cercando di rispondere alla tua domanda, direi che identità e pluralità non si conciliano in via definitiva. Convivono. Nella scena ci muoviamo dentro una complessità che concilia l’inconciliabile – come “uno e molti” nell’Edipo Re – che rende possibile la convivenza di ciò che la filosofia tiene distinto e opposto. E questa è l’arte del teatro. Da sempre.

Il concetto di trasformazione, con il suo significato filosofico legato al costante divenire dell’Essere, del tempo e della realtà che lo circonda, in che relazione è con quello “sguardo” che «apre la possibilità della produzione di osservazioni reciproche che mettono in connessione tra loro i saperi»?

Nessuno sguardo che osserva è esterno al sistema osservato.
Nel senso comune gli artisti fanno, gli operatori esercitano la loro pratica di sguardo, selezionano e rendono possibile – attraverso la programmazione – che l’opera venga osservata da altri sguardi, quelli dei critici e degli spettatori. Rispetto a questo schema di sguardi mi pongo delle questioni e ne cerco il superamento perché – a mio parere – non è rigoroso.
La questione del posizionamento dello sguardo è per me cruciale, da sempre: da dove guarda chi guarda, da quale prospettiva, da cosa è “informato” il suo sguardo. Faccio riferimento a Luhmann nella sua teoria per cui un sistema non si osserva dal di fuori, non può vedere ciò che fa in relazione all’ambiente che gli sta “fuori”, esso è costituito dalle proprie operazioni, in virtù delle quali viene deciso in che modo muoversi o programmare corsi di azioni. È proprio Luhmann che parla di “osservazioni reciproche” quando indaga la caduta del soggetto trascendentale classico con il “suo sguardo da nessun luogo” e apre la possibilità di rileggere il trascendentale connettendolo «al reticolo di osservazioni reciproche che mettono in connessione tra loro i saperi che popolano l’enciclopedia».

 

Foto di Margherita Masè

 

Durante tutto il processo di costruzione che porta a Oscillazioni cerco di assumere questa posizione interna dello sguardo, un posizionamento che consenta l’osservazione reciproca e che faccia sì che questo sguardo sia anche guardato. È questo ciò che costituisce il nodo centrale di Oscillazioni nel momento in cui viene aperto ad altri sguardi – cioè nel momento in cui dopo mesi di lavoro si realizza il festival. Ciò che viene aperto allo sguardo degli spettatori – critici e pubblico – è una zona emersa di pratiche generate dall’osservazione reciproca.
E che succede se assumo la reciprocità dello sguardo, se abbandono “lo sguardo da nessun luogo” del soggetto trascendentale classico, se misuro ogni materia cercandone i paradigmi precipui e non deformandola con paradigmi esterni spesso strumentali, se costruisco relazioni artistiche autentiche? Forse che riposiziono l’arte e le restituisco un luogo proprio.

 

Indagare il “processo di creazione” di un’opera vuol dire stare in una dimensione “liminare” dove tutto può accadere proprio perché c’è l’opportunità di mutare e di moltiplicare i punti di vista degli artisti e degli spettatori. È da questo presupposto che nasce l’urgenza del dialogo e delle relazioni, ma anche la condizione per riflettere sulla funzione dell’arte?

Esattamente. L’azione della decostruzione è l’accettazione della complessità. Non è solo la forma in cui scelgo di presentare la programmazione agli spettatori ma è il metodo per condurre la ricerca. I primi referenti dell’intero progetto sono gli artisti. È attraverso la cura degli artisti e dei loro progetti che io intendo e esercito la cura degli spettatori rimettendo – a mio parere – nel giusto ordine la questione.
Solo così ciò che viene messo in campo può riguardarci proprio perché generato da un reticolo complesso di relazioni che sono il teatro. Il tentativo di indicare un nuovo centro, che poi è quello antico. E dato questo centro antico, originario, fare in modo che tutto si riorganizzi attorno ad esso.
Credo che abbiamo disabitato questo centro nel senso che non lo abbiamo abitato e che oggi “il cuore del sistema è vuoto”. Cerco di abitare questo cuore. E non credo di essere la sola. Alla ricerca di un nuovo cuore stanno lavorando esperienze coraggiose, spesso poco visibili, zone vive che il sistema con le sue mediocrità legate all’imperio delle semplificazioni non raggiunge, non guarda. Si tratta di ribaltamenti coraggiosi, senza i quali tutto si sarebbe già dissolto. In un tempo come questo spesso la scena contemporanea imbraccia le armi contro un mare di guai e corre una gara non sua cercando nei numeri, nei like, nel consenso la risposta alla propria fragilità e la propria rivalsa dentro un mondo.
Io indietreggio. Cerco il vuoto. Scelgo la radicalità. Proprio perché penso che è l’unica autentica strada percorribile. L’unica che ci corrisponde come artisti e come esseri umani.

Foto di Margherita Masè

 

Come hai “cucito” i quattro “capitoli progettuali” che hanno dato vita a TDV13? E quali i criteri della scelta degli artisti, “onda fluttuante” di una visione in perenne movimento, eppure ferma ed essenziale per “mettere in equilibrio” tra loro il “gesto artistico”, gli spettatori, i cittadini, gli spazi territoriali?

Le poetiche sono fondamentali. È lì che avviene il primo scambio di sguardi reciproci. Non posso e non voglio lavorare con artisti di cui non colgo la bellezza. Sono molto drastica e il mio sguardo è molto duro in realtà. Aprire il processo è molto più complesso e richiede una maestria e una consapevolezza artistica ben più solida che presentare uno spettacolo. Per questo la scelta degli artisti è basata su un’adesione reciproca. La possibilità di vivere l’azione artistica dentro una relazione. Una qualità che si costruisce nel tempo attraverso il lavoro e che va sempre rilanciata. Il livello su cui si muove il progetto è molto alto. Forse più di quanto si riesca a comunicare

Quale la risposta del pubblico, romano e non, all’edizione di TDV13?

Più o meno raddoppiata rispetto al 2018. Il dato mi conferma che se l’intuizione è buona ci vuole tempo per acquisire strumenti, elaborare azioni precise e comunicarle in modo efficace ma la gente capisce e risponde. Vale per tutto credo. Insistono retoriche della semplificazione tanto nello spettacolo quanto in tutti gli altri ambiti. E tali semplificazioni – slogan e consenso – non sono volute dalla gente. Non se le merita.

 

Foto di Piero Tauro

Se, come dichiari, «Oscillazioni è al tempo stesso cornice e chiave, meta e luogo di destinazione del tutto», quali credi possano essere i progetti futuri di TDV?

Devo riflettere. Il 2020 è l’ultimo anno del triennio e sento che si sta aprendo una nuova stagione e i suoi contorni sono ancora poco definiti nella mia testa.
Da una parte c’è una sorta di “onda lunga”: la curatela in questi anni ha attivato collaborazioni che non si arrestano con la realizzazione delle edizioni del festival ma proseguono nel tempo coinvolgendomi a titolo personale in ulteriori residenze, costruzioni, progettualità. La sensazione è quella di avere una specie di factory – non formalizzata – ma in piena attività. Un bagaglio di progetti che si vanno definendo, realizzando, rilanciando. Se tenere insieme tutto questo è difficile, disperderlo sarebbe un delitto. La risposta potrebbe essere un luogo – il mio tanto desiderato Centro di ricerca – ma non ho nessuna speranza di riuscire a realizzarlo.
Dall’altra Oscillazioni attira attenzioni e sta diventando un “oggetto” – mi hanno chiesto di fare una giornata di Oscillazioni dentro un altro festival ad esempio.
Sento che questo triennio così come è stato concepito non è replicabile. A meno che appunto non si riesca a trasformarlo da festival a qualcosa di stabile. Comprendere in che direzione andare richiederà molto lavoro. E molto studio.