Rinascere e inventare una lingua scrivendo. Intervista a Rossana Campo di Carolina Germini

Leggere Scrivere è amare di nuovo, ultimo lavoro di Rossana Campo, pubblicato da Giulio Perrone Editore, è come ricevere un dono. Riflettendoci, ogni libro a suo modo lo è; lo scrittore ci consegna la sua opera che è quasi un testamento, un’eredità, di cui noi lettori diventiamo custodi. In queste pagine avvertiamo che l’autrice, dopo aver conservato a lungo per sé delle riflessioni così intime, ha sentito il bisogno di condividerle. Il lettore ha quindi il privilegio di entrare in una stanza che fino a quel momento aveva abitato solo lei e, dopo essere rimasto un po’ ad aspettare sulla soglia, sorpreso da un’accoglienza inaspettata, trova un posto in cui sedersi ad ascoltare.

Scrivere è amare di nuovo è un testo a cui lavori da molti anni, è quindi il risultato di un lungo processo di sedimentazione. Come si è evoluto nel tempo questo tuo lavoro? Inizialmente, quando hai cominciato a scriverlo, immaginavi che avrebbe preso questa forma?

Ma guarda, penso che sto lavorando a questo romanzo più o meno da quando ho iniziato a scrivere quando ero ragazzina. Ho scritto i primi racconti a tredici anni, realizzando una raccolta con cinque racconti. Ho sempre avuto questa voglia di raccontare storie e poi più avanti ho cercato di elaborare una mia riflessione sulla scrittura. Nei miei libri ho raccontato spesso o quasi sempre le donne, solo dopo ho capito che quella era anche una scelta politica. L’occasione poi per mettere insieme queste mie idee sulla scrittura è nata qualche anno fa quando ho iniziato a tenere dei laboratori di scrittura e quindi questo libro è anche il risultato di quella esperienza. I laboratori mi sono serviti a chiarire la mia idea di scrittura. È inoltre un modo per me per trasmettere la letteratura: credo infatti che sia importante non mistificarla, come spesso invece accade in Italia ma non solo, quando viene presa per letteratura anche quella in cui non c’è ricerca, non c’è lavoro sulla lingua, non c’è un occhio critico, insomma quando viene scambiata con l’intrattenimento…

Come è nato il tuo interesse per la scrittura autobiografica, a cui questo libro è dedicato?

Anche qui si intrecciano vari elementi. Da una parte mi sono trovata a leggere molti romanzi autobiografici, molte autobiografie, dall’altra ho iniziato anche io a scrivere qualcosa di autobiografico,  come il libro su mio padre Dove troverete un altro padre come il mio. Naturalmente la maggior parte degli scrittori partono dalla propria esperienza, ma è diverso quando decidi e dichiari che quello che scriverai è biografico, come per me è stato quel libro. Anche il mio primo romanzo, In principio erano le mutande, in qualche modo lo era. Lì raccontavo di Genova, dei miei amici, ho inserito anche i nomi di alcuni di loro ma è diverso quando parli espressamente di te, così ti metti davvero in gioco…

In questo tuo ultimo lavoro sussistono due livelli, uno è quello della scrittura e l’altro è quello della lettura, che sono fortemente intrecciati.

Beh, per me è impensabile che qualcuno voglia dire che vuole scrivere ma non ha l’ossessione della lettura. Non deve essere solo un interesse, è qualcosa che fai non appena hai due minuti di tempo.

Deve essere urgente quanto il bisogno di scrivere? 

Leggere in un certo modo è scrivere, leggendo scegli anche che scrittore vuoi essere, che scelte fare…

Il secondo capitolo del libro, “Una seconda nascita”,  ha delle assonanze con alcune pagine dell’opera Le piccole virtù di Natalia Ginzburg, in particolare con il capitolo intitolato “Il mio mestiere”. Tu scrivi: «Il miglior modo che conosco per stare al mondo tutta intera è sempre stato scrivere». La Ginzburg afferma: «Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene». Entrambe individuate quindi nella scrittura un modo di abitare il mondo, di trovare il proprio spazio. Per te scrivere è questo?

Le piccole virtù è un libro che adoravo da ragazza, come tutti i libri della Ginzburg quindi mi stai dicendo qualcosa di bellissimo. Sì, credo che questa per me sia la spinta più grande. Penso che si nasca scrittori come si nasce con gli occhi azzurri o gli occhi neri. Sei portato alla riflessione, alla ricerca della consapevolezza. Poi questo non basta, ogni scrittore deve cercare un proprio stile, fare un lavoro su se stesso…

A proposito di questo, tra i vari consigli che dai nel tuo libro a chi si accinge a scrivere vi è quello di torcere il collo alla lingua ovvero non pensare mai nelle prime stesure alla grammatica, alla sintassi e alle regole ma abbandonarsi al  flusso e cercare così la propria lingua. È quello che afferma Deleuze, che citi, il quale sostiene che ogni scrittore, lui in particolare nomina Proust, inventa una nuova lingua. Questo atto di invenzione si ricollega se vogliamo alla rinascita che si vive quando iniziamo a scrivere, di cui tu parli nel libro.

Sì esattamente. Deleuze parla di torsione linguistica. Questo avviene perché hai bisogno di sentire tua la lingua. È il lavoro di piegarla al tuo sentire. Non basta trovare uno stile.  Lo scrittore deve sentire che lo stile è diventato qualcosa di suo, attraverso cui riesce ad esprimere la sua visione del mondo.

Oltre agli scrittori e alle scrittrici che nomini, tra cui ad esempio Virginia Woolf e Marie Cardinal, ce ne è qualcuno a cui sei particolarmente legata? Magari uno di quelli la cui opera ti ha incoraggiato a scrivere o ti ha formata e condizionata più di altri. 

Io dico sempre che la mia maestra è Gertrude Stein perché la prima volta che ho letto le sue opere ho capito che si può fare di tutto con la letteratura, si può per esempio scegliere di mettere il capitolo terzo dopo l’ottavo. Mi sono innamorata della sua vita, del suo modo di essere eversiva, ha lasciato l’America per andare a vivere Parigi, viveva apertamente la sua relazione omosessuale e parliamo degli inizi del Novecento… Un’altra grande scrittrice americana che per me è stata importantissima Grace Paley. 

L’ultima domanda che vorrei farti riguarda Parigi, città in cui hai vissuto vent’anni. Quanto questa città è stata importante nella tua formazione di scrittrice? 

Diciamo che il mio stile si era già formato in Italia quando ero ancora a Genova, avevo da poco finito l’università e mi barcamenavo tra vari lavoretti, ma avevo i miei riferimenti letterari e avevo già scoperto Gertrude Stein, che cito anche nel mio primo romanzo In principio erano le mutande. La mia voce come scrittrice era già quella però sicuramente andare a Parigi è stato importante, anche leggere gli autori in francese. L’idea che avevo quando ero a Parigi era che qualunque persona avesse una storia da raccontare. A Genova invece per me le persone erano tutte più o meno identificabili. A Parigi non è così. Come in tutte le metropoli non saprei dire se uno è un camionista o un artista. È più difficile riconoscere le persone. Però non basta abitare in una metropoli per saper scrivere, se pensi che Emily Dickinson non è mai uscita di casa. Se sei un genio va bene, ma se non lo sei vivere in una città come Parigi fa certamente bene ad uno scrittore.