Un evento effimero, che si consuma nel qui e ora, che si appoggia alla potenza dello sguardo e che in ogni sguardo trova un significato differente: ogni atto teatrale è unico, diverso ogni sera e nella stessa sera. Per questo è impresa difficile riuscire a declinare tale potenza emotiva in scrittura. Lo hanno fatto, riuscendoci, Marco Baliani e Velia Papa mettendo su carta L’attore nella casa di cristallo uno spettacolo senza precedenti e per questo irripetibile andato in scena il 15 giugno scorso, data storica che segnava la riapertura dei teatri dopo il lockdown. Marco Baliani, qui nella veste di autore e regista, e Velia Papa, direttrice di Marche Teatro che ha prodotto questa esperienza, sono stati artefici di questo progetto di resistenza teatrale, che ha preso vita nella piazza antistante il Teatro delle Muse di Ancona, creando una drammaturgia nuova, spietata, che, come sostengono nel volume edito da Titivillus, «ha messo al centro proprio la clausura appena subita, le perdite affettive e relazionali, l’incertezza e l’inquietudine di questi passati ma ormai già epocali mesi di lockdown». E lo hanno fatto ingabbiando 4 attori in altrettante teche di cristallo: in uno spazio di due metri per due ogni artista ha portato avanti un soliloquio mentre il pubblico, debitamente distanziato, poteva ascoltare, grazie agli auricolari, quanto accadeva in ogni teca, passando da una gabbia all’altra, senza mai però poter ascoltare quelle voci in contemporanea. Marco Baliani ci ha raccontato le riflessioni dalle quali questo libro è scaturito e quale è stata la forza vitale che ha animato tutto il progetto.
Che ricordi hai di quel 15 giugno 2020?
Di uno squarcio di luce nel buio della depressione che aveva avvolto tutti noi artisti di teatro. Quando Velia Papa mi ha telefonato per propormi questo progetto performativo un po’ folle da mettere in scena nel giorno simbolico della riapertura dei teatri è come se si fosse aperto uno spiraglio di speranza che arriva quando pensi che tutto sembra impossibile. Il ricordo quindi è molto bello perché è un ricordo di creatività.
Com’è stato provare con gli attori a distanza, online attraverso un video, per te che sei abituato a un lavoro sugli attori molto fisico?
Non avrei mai pensato di poterlo fare, mi sembrava una bestemmia proprio per questo, perché di solito il mio lavoro è molto legato anche allo spazio, agli oggetti, alle cose che accadono. Lì invece eravamo in una camera di decompressione, quasi in un laboratorio di anatomia: loro stavano nelle loro case, ognuno si è costruito un quadrato di due metri per due all’interno della propria stanza però tutto intorno avevano i loro libri, i loro oggetti, la loro vita, ed è una cosa molto difficile da fare. Sono stati però bravissimi perché concentrarsi in quelle condizioni è davvero molto faticoso. Un altro aspetto interessante è stato anche il contributo che ognuno di loro ha portato alla drammaturgia del testo, cosa che non faccio nel senso che di solito io registro, scelgo, seleziono, distillo tutto ciò che avviene lavorando con gli attori per poi trasferirlo nel testo. In questo caso però avevamo tempi contingentati perché dovevamo mettere in piedi uno spettacolo in dodici giorni. Gli incontri online in un certo senso hanno accelerato questo processo perché l’essere faccia a faccia davanti a uno schermo ha permesso una concentrazione maggiore e quindi anche il testo è venuto fuori abbastanza facilmente. Ho chiesto agli attori di portarmi qualcosa che sarebbe piaciuto fare loro, poesie, cose anche diversissime fra loro, che ho montato assieme a pezzi miei. Da qui nasce un testo che non ha una consequenzialità di causa-effetto, avvengono più accadimenti, e l’occhio non sa dove posarsi né è guidato a compiere un percorso univoco.
Chi è L’attore nella casa di cristallo? È un “essere” legato a questo periodo di pandemia oppure si potrà in qualche modo portare nel futuro?
Questa è una domanda cui solo gli dei possono dare una risposta… Io mi auguro che non si sia costretti a rifarlo in queste condizioni. Noi abbiamo voluto raccontare l’impedimento, quello che non era più permesso e quindi la drammaturgia è stata la costruzione di quello che stavamo vivendo e soffrendo non solo come artisti ma proprio come essere umani, come persone, cioè la chiusura, l’impossibilità del contatto, il respiro che diventa pericolo, il fatto di non potersi guardare in faccia perché si indossa una mascherina. In poche parole abbiamo raccontato quello che ancora oggi purtroppo stiamo vivendo ovvero la progressiva perdita dell’empatia reciproca, qualcosa che l’umanità non ha mai sperimentato in questo modo. Da qui in poi non so cosa succederà. Spero che si torni a fare un teatro innanzitutto corale, collettivo.
Sulla tua pagina Facebook ti batti contro il teatro in streaming sottolineando il fatto che «l’esperienza dello sguardo dello spettatore è una esperienza ricchissima e non omologabile a un solo punto di vista» che poi è quello della telecamera che inquadra.
Sì, io sono contro lo streaming in una forma viscerale perché trovo veramente pericolosa la diretta in streaming come sostituzione totale dello spettacolo dal vivo. È pericolosa come abitudine perché una volta passata l’emergenza Covid c’è il rischio che si continui così e non si torni più a teatro. Credo che stiano tentando di omologare gli sguardi, magari non in modo così consapevole ma in passato è accaduto. Del resto è la camera che dice cosa guardi, non tu, e questo è un pericolo perché l’educazione avviene attraverso le abitudini che si ripetono. Per esempio la televisione degli anni Ottanta o tutto lo sfascio televisivo dei vari reality show hanno prodotto una educazione percettiva di un certo tipo che poi ha permesso, secondo me, di passare da cittadini a consumatori. E la cosa tragica è che l’essere umano purtroppo si abitua a tutto per sopravvivenza: questa è la grandezza della nostra specie e la sua terribilità.
Come si può recuperare allora questo sguardo ed evitare che lo streaming sostituisca l’esperienza teatrale?
Devono essere gli attori e gli artisti a fare fronte comune, a fare squadra. Purtroppo però non è così perché in tantissimi stanno abdicando, un po’ per sopravvivenza ma anche un po’ perché hanno sposato l’idea di Franceschini di creare una Netflix della Cultura: 10 milioni di euro per trasferire in digitale quello che era dal vivo. Tutto ciò che era vitale e in quanto tale caotico e incontrollabile diventa così controllabile.
Nelle note di regia scrivi: «Siete testimoni della povertà della vostra vita da attori, in una società che non ha bisogno del teatro». Lo pensi davvero o è solo una provocazione?
Ovviamente è una provocazione. Abbiamo creato questi blocchi di cristallo immaginando un mondo che non abbia più bisogno del teatro. Certo, il rischio c’è, è reale ma io penso che non succederà perché ha resistito per 3000 anni… Quello che ci sta accadendo però è qualcosa di talmente nuovo che cambierà proprio antropologicamente il nostro stare al mondo. Io lotto e spero che si possa tornare a un teatro dal vivo ma anche qui il problema non è più tornare. Io sto riflettendo su cosa dovrebbe fare il teatro se vuole davvero riuscire a esserci ancora, penso che dovrebbe essere capace di raccontare il dopo-catastrofe. Questa è una bella sfida per i drammaturghi, gli scrittori, i teatranti. Il teatro è sempre stato un luogo che ha permesso alla gente di trovarsi. Per esempio, durante la guerra, le sale teatrali di Sarajevo erano piene perché il teatro è un luogo sociale e la nostra specie è questo: abbiamo bisogno degli altri.
Com’è stato osservare, da un lato, gli attori che hanno recitato nel caos della città che scorre o sotto la pioggia scrosciante e, dall’altro, gli spettatori?
La fase dell’esposizione al pubblico è stata per certi versi abbastanza agghiacciante, quasi inquietante perché lo spettatore poteva decidere quale dei due attori ascoltare negli auricolari. È l’idea che non tutto il mondo è a tua disposizione, cioè la morte del consumismo. Gli attori poi non si relazionavano con gli spettatori perché i loro erano soliloqui, non monologhi. Lo spettatore diventa dunque una sorta di guardone, è uno che spia dentro la vita di questi esseri ridotti ai minimi termini che balbettano pezzi di testo, frammenti dispersi. Io stesso come spettatore ho provato inquietudine nell’osservarli in quelle teche; poi osservavo gli spettatori che si guardavano l’un l’altro mentre nella piazza c’era la vita di tutti i giorni: motorini che passavano, gente che si fermava e non capiva e quindi guardava gli spettatori, che a loro volta guardavano gli attori che si muovevano nelle teche, non sentendo però nulla di quello che stavano dicendo. Era una dimensione fantascientifica, surreale, distopica che però sono contento di aver creato anche perché con Velia abbiamo poi deciso di riportare tutto questo su un libro che è un modo per far durare qualcosa di effimero.
Ed è proprio nel libro che vengono riportate tutte queste emozioni anche attraverso stralci di dialoghi fatti con gli attori in prova. Per esempio a Michele Maccaroni dici: «Il tuo pezzo è sul ricordare, è vietato ricordare ma tu ricordi, sei attaccato alla memoria». Marco Baliani, invece, è attaccato alla memoria? Cosa sono per te il ricordo e la memoria?
La memoria per me è l’essenza dell’essere umano perché è una forma narrativa dell’esistenza. La nostra memoria non è fotografica, non siamo delle macchine. Noi non ricordiamo come sono andate esattamente le cose ma ricordiamo come noi ci sentivamo immaginando di nuovo quelle cose. La nostra è una memoria che per certi versi inventa perché siamo esseri umani, siamo imperfetti da questo punto di vista però questa è la nostra grandezza. E nello spettacolo gli attori capiscono che non possono avere neanche questo. È un po’ quello che ci succedeva e che ci succede in queste giornate di clausura: è meglio non pensare al fatto di non potersi vedere, di non poter vedere e abbracciare i propri cari altrimenti ci viene il magone, per non parlare delle persone che stanno morendo che è un fatto agghiacciante.
Impossibilitati da questi eventi a programmare qualunque cosa, oggi viviamo in un eterno presente: secondo te cosa succederà dopo? Come si vivrà?
Questo è il grande interrogativo. Il mio sogno è quello che si consumi di meno e che questa pandemia ci abbia insegnato che si possa vivere anche con poco, che l’essenziale, come diceva il Piccolo Principe, è invisibile agli occhi. Sarebbe meraviglioso. Viviamo purtroppo in una società malata che non è abituata alla rinuncia e alla elaborazione del lutto. Papa Francesco ha ragione quando dice che bisogna rigenerare la società e non ritornare alla cosiddetta normalità perché era una normalità malata già prima della pandemia.
Una battuta che ricorre spesso nel tuo spettacolo Una notte sbagliata (produzione Marche Teatro) è: «chi sei tu?». Quando hanno rivolto a te questa domanda hai risposto che sei quello che serve in quel momento. È ancora così? Chi è Marco Baliani oggi in questa realtà di pandemia?
Sì, è quello che continuo a pensare. Ognuno di noi indossa una maschera, intesa però nel senso di persona non di infingimento, di cosa infingarda, che in quel momento è quello che serve a te ma anche gli altri che ti stanno intorno e che poi è un’assunzione di responsabilità. Oggi, in questa situazione, devo dire che sono molto confuso. Progetto, scrivo, scolpisco la creta, cerco di fare in modo di credere che si possa essere creativi, però lo faccio in una forma autoctona e autarchica quasi perché non ho riscontri dall’esterno, non posso dire se ciò che ho fatto ha un senso perché questo un attore lo capisce solo quando ha un pubblico davanti a sé. La verifica è la cosa più bella dell’atto teatrale, l’esporsi. Io sono in una fase in cui l’esposizione non c’è e quindi soffro molto e non credo di essere il solo.
Cosa ti auguri per questo Natale e per il 2021?
Mi auguro davvero un salto di coscienza, è un augurio stratosferico ma spero che accada e che si capisca che il virus è arrivato perché siamo già ammalati, perché respiriamo male, mangiamo male e che tutto il sistema immunitario non funziona perché siamo avvelenati da quando nasciamo. Il virus è la spia esatta della malattia della società. Mi auguro che si capisca questo.