Quando il ConDominio diventa un Teatro: Intervista a Concita De Gregorio di Patrizia Vitrugno

«Tutti i luoghi possono diventare teatro». È da questo semplice ma esplosivo concetto che nasce ConDominio, il progetto di Concita De Gregorio e Sandra Toffolatti con la direzione artistica della stessa Toffolatti insieme a Hossein Taheri e Paola Rota e la produzione esecutiva di Valeria Orani. Prodotto da Rodrigo srls e realizzato con il sostegno di Artisti 7607 e con il contributo per i Progetti Speciali 2021 del Ministero della Cultura, ConDominio prende vita nell’estate del 2020, subito dopo il lockdown, per poi ripartire nell’autunno 2021 toccando numerose città quali Modena, Parma, Udine, Roma, Milano, Palermo, Cagliari. Ogni tappa una nuova avventura perché, come ci racconta Concita De Gregorio, «i condomini sono spesso dei teatri naturali perché basta affacciarsi alla finestra per trovare un palco». In attesa della nuova edizione la prossima primavera, abbiamo tracciato un piccolo bilancio con Concita De Gregorio.

Quando un condominio diventa teatro?

Tutti i luoghi possono diventare teatro. Il teatro nasce come gesto di comunità. Oggi, però, le nostre case, anche architettonicamente, sono pensate come luoghi di sosta o in cui dormire. Credo che, anche un po’ a causa del nostro stile di vita frenetico, noi non sappiamo nulla del posto in cui viviamo o delle persone che vivono accanto a noi e condividono con noi il tempo e lo spazio del nostro stare al mondo. Ogni giorno usciamo dalle nostre case e andiamo in una bolla fatta dal nostro posto di lavoro o dalla comunità di persone che frequentiamo e quindi non abbiamo idea di chi sia l’inquilino del piano di sopra o di quello che vive sul nostro stesso pianerottolo oppure di quello che incontriamo in cortile tutti i pomeriggi e al quale non abbiamo mai rivolto la parola. Questo invece è il primo nucleo della comunità politica di una città, nucleo che, magari inconsapevolmente, abbiamo rinunciato a vedere. Ed è uno sbaglio perché è un po’ come quando in classe ci toccava un compagno di banco antipatico: non lo sopportavamo ma ci dovevamo fare i conti. La realtà è imprevedibile ed è fatta di differenze. E i luoghi che abitiamo ne sono lo specchio. Per questo è necessario il teatro perché essendo un gioco aiuta a incontrarsi e a parlarsi. Il teatro ha ancora questa forza di attrarre a sé le persone che quindi si affacciano dai balconi o scendono nei cortili per assistere a uno spettacolo gratuito. Del resto, i condomini sono spesso dei teatri naturali perché basta affacciarsi alla finestra per trovare un palco.

ConDominio, in una delle sue tappe, è approdato anche in un quartiere complesso di Roma: Primavalle.

Sì, nel Lotto 25, che rappresenta appunto una realtà molto ostica e diffidente della periferia romana. È qui che, in collaborazione con l’associazione Ex-Lavanderia di Santa Maria della Pietà, abbiamo scelto di portare Antigone – Kammertragödie / Tragedia da camera diretta e interpretata da Lea Barletti e Werner Waas. Una storia tragica come quella di Antigone è riuscita a coinvolgere sia la signora di una certa età che passa dal cortile solo per andare a fare la spesa sia i bambini che hanno interrotto i loro giochi incuriositi fino ai ragazzi pronti per uscire. Tutto si è fermato in quel momento. È la forza della parola che trattiene a sé, è magnetica.

Quali sono stati i feedback da parte del pubblico?

È stato interessante soprattutto il feedback dei ragazzi. Noi spesso vogliamo le cose che conosciamo e, di conseguenza, non sappiamo di desiderare quello che non conosciamo. Per cui nei ragazzi si è creato un desiderio di qualcosa di sconosciuto. Che poi è il rovesciamento del tempo corrente perché questo è un tempo in cui noi assecondiamo i desideri, non li creiamo. Esempio di questo sono i programmi televisivi che si fanno sulla base dell’Auditel così come delle politiche che si fanno sulla base dei sondaggi cioè capisci quello che la gente vuole e glielo dai. L’idea, invece, di suscitare un desiderio è più rischiosa perché, come nel nostro caso, dai loro qualcosa che non solo non ti è stata chiesta ma che magari non era neanche conosciuta.

ConDominio è nato assieme all’attrice Sandra Toffolatti nel 2020, a tempi del lockdown, quando da un lato abbiamo sofferto la reclusione forzata ma dall’altro abbiamo riscoperto la relazione, lo stare insieme e la condivisione nel canto, nella musica o nella conversazione dai terrazzi.

Esatto. Ovviamente in quest’idea non c’è niente di nuovo perché il teatro a domicilio esiste da decenni. Ora però ha tutto un altro sapore perché con il lockdown siamo stati costretti a rimanere da soli, chiusi nelle case senza rapporti con l’altro. E quindi la relazione assume un vero e proprio valore di libertà. Nelle piazze si parla tanto di libertà ma la vera libertà è poter entrare in rapporto con l’altro, uscire dalla prigionia della chiusura e avere uno scambio, qualunque esso sia. Per esempio, proprio a Primavalle, mentre si raccontava l’antecedente della storia di Antigone ovvero la vicenda del re Edipo a cui la sacerdotessa Pizia aveva profetizzato una terribile sorte cioè quella di uccidere il padre e sposare la madre e di come poi questa sorte si sia effettivamente concretizzata, uno spettatore ha interrotto lo spettacolo e ha chiesto: ma perché nessuno gli ha detto che ha ammazzato il re? Ed effettivamente questa è una bella domanda. Si tratta di un esempio semplice ma che evidenzia il fatto che in queste circostanze si genera qualcosa di sorprendente: si racconta una storia e la gente chiede spiegazioni. Poi non ha importanza se si tratta di una tragedia greca o di un racconto contemporaneo, è la storia che conta, che coinvolge.

Durante il lockdown si è molto parlato di un ritrovato senso di comunità: sei d’accordo?

No, non abbiamo riscoperto o ritrovato nulla. Io credo invece che ognuno di noi sia rimasto com’era, solo un po’ di più cioè ognuno ha enfatizzato la propria natura. Ed è esattamente quello che accade nelle emergenze dove viene fuori quello che si è. Lo stesso vale per la collettività. Credo però che per un momento ci sia stata data la possibilità di capire che potremmo essere veramente soli e che l’unico antidoto alla solitudine sia la relazione con il vicino fisicamente più prossimo. Chi hai accanto? Se apri la finestra quale sguardo incroci? È da questo punto che bisogna ripartire.

Come vengono scelti i condomini?

Partendo dal presupposto che questo progetto si può fare quasi ovunque, all’interno dei palazzi, nei cortili, negli androni o su per le scale come abbiamo fatto per esempio a Palermo nel Palazzo Lampedusa, va detto che è necessario un lungo lavoro di preparazione portato avanti dalla direzione artistica. I nostri spettacoli si svolgono senza amplificazione né illuminazione artificiale ma nel paesaggio naturale e li realizziamo in collaborazione con le varie organizzazioni, associazioni o realtà teatrali del posto. Non si tratta di spettacoli calati dall’alto ma cerchiamo luoghi in cui ci sia terreno fertile. Per cui Hossein Taheri va sul posto qualche tempo prima e, con le persone del luogo, individua tre o quattro possibilità. Dopo di che cerchiamo di capire quale spettacolo poter portare in modo che sia coerente con questa logica. Ad esempio, quando abbiamo portato Dario Fo in un condominio di Rebibbia dove si incrociavano tantissime persone di nazionalità diverse, il suo grammelot non lo conosceva nessuno ma lo capivano tutti. Questa è la vera magia, una magia che forse abbiamo tutti un po’ dimenticato. Oggi il teatro è diventato elitario perché spesso chi ci va è già predisposto ad andarci. Come intercetti, invece, chi non lo frequenta? E se con questa operazione saremo riusciti a far appassionare anche solo una persona per sera, avremo già raggiunto un gran risultato. Un’altra cosa interessante, secondo me, è anche ciò che accade dopo lo spettacolo perché si resta lì a parlare e quindi persone che prima non si salutavano, da quel momento magari si scoprono più simili di quanto avrebbero mai pensato. È imprevedibile quello che può succedere.

Un’ultima cosa. Cinque invettive, sette donne e un funerale, che ha aperto la stagione del Teatro Kismet di Bari, è il primo lavoro teatrale in cui non sei più solo autrice ma anche interprete. Come nasce questo spettacolo?

Nasce da lontanissimo perché si tratta di una passione che coltivo da molto tempo che è quella di studiare parole e opere di alcune figure femminili luminose del Novecento. A queste donne dedico un’orazione funebre, immaginando che siano loro stesse a parlare ai propri funerali per raccontare chi sono e chi sono sempre state. Ed è un’occasione per dire, appunto “un’ultima cosa”. Accanto a me sul palco c’è la cantautrice pugliese Erica Mou che fa da controcanto ai racconti, con ninne nanne e canti interpretati dal vivo. Avremmo dovuto debuttare nel novembre del 2020 poi, com’è noto, i teatri sono stati chiusi a causa della pandemia e quindi abbiamo rimandato. Siamo stati in scena fino al 27 ottobre e torneremo, sempre in Puglia ma al Teatro Radar di Monopoli, il 2 e il 3 dicembre.

Uno spettacolo che nasce anche da una tua vicenda assolutamente personale e quindi autobiografica: ce la racconti?

Sin da ragazzina mi è sempre piaciuto mettermi nei panni e nel corpo degli altri e scrivevo storie che non erano mai completamente inventate ma seguivano sempre dei principi di realtà. Mio padre conosceva molto bene questa mia passione e, avendo letto le cose che avevo scritto, un giorno – era già malato – mi disse: «perché non scrivi anche il mio necrologio?». Ovviamene non ci sono riuscita perché era una cosa molto complicata ma è stato in quel momento che ho capito le ragioni della sua richiesta ovvero che sarebbe bello esserci in quel momento e assistere a quello che si dice di te, a quello che gli altri si dicono fra loro e perché magari non c’è nessuno oppure è pieno di gente venuta a salutarti. Quindi ho pensato che fosse giunto il momento di mettere a terra questo lavoro che portavo avanti da anni. La cosa bella è che si tratta di un progetto vivo, in divenire, perché è solo la prima parte. L’anno prossimo ci saranno nuovi sviluppi perché vorrei raccogliere altre invettive – ce ne sono tantissime – e farlo diventare uno spettacolo modulare con storie di volta in volta diverse o scritte d’occasione. Vedremo, si tratta di un progetto che è contemporaneamente l’esito di un cammino ma anche l’inizio di uno nuovo.

Che cos’è dunque per Concita De Gregorio il teatro?

Il mio modo di stare al mondo è da sempre un modo da spettatrice. Sin da piccola amavo ascoltare le storie degli altri, per esempio se andavamo in pizzeria mi piaceva indovinare le vite delle persone agli altri tavoli. La cosa che mi suscita desiderio e fascinazione è osservare le storie e capirle, che poi è anche l’origine del mestiere che faccio ovvero ascoltare e raccontare. In realtà, però, è anche un modo per assistere al teatro del mondo. E il mio sogno era quello di essere invisibile per essere in grado di vedere senza essere vista. Piano piano col tempo questo è diventato un lavoro ma non è mai venuta meno la passione di ascoltare le storie. Fino a quando ho capito che anche io potevo raccontarle e credo che la ragione per cui lo faccio sia per curare un guasto, un danno – mio principalmente – un mio bisogno, una mia incertezza esistenziale ma che penso sia una fragilità anche degli altri. Portare la parola che cura, che vendica, che consola, che guarisce, che spiega. La parola per me è una medicina e quindi per me è questo il teatro: una cura.