PROFILI: VITE DA VICINO > Una pagina bianca e la libertà di raccontare l’ultimo sguardo. Intervista a Domenico Iannacone di Patrizia Vitrugno

Domenico Iannacone in Che ci faccio qui (la cui ultima stagione si è appena conclusa su Raitre) racconta le storie degli ultimi, dei dimenticati, di quelli su cui nessuno posa lo sguardo. Lui, invece, ha deciso di posarlo il suo sguardo ma senza invadenza, oggi suo tratto distintivo. All’origine di questo suo modo di narrare, l’incontro con una ragazza di poco più di vent’anni, seduta per terra a chiedere l’elemosina. «Quell’incontro fatto di silenzi e di cose dette con gli occhi», durato solo qualche minuto, avrebbe dovuto chiudere un servizio. Purtroppo per ragioni di tempo gli chiesero di tagliare quella parte e fu allora che giurò a sé stesso che da quel momento avrebbe iniziato «a lavorare sui vuoti, sulle pause e su tutto quello che non si vede». Lo racconta nell’intenso podcast di Radio Due Il sillabario delle emozioni pubblicato su Rai Play Sound. Ed è da qui che partiamo, da quel rallentamento che lo ha portato a fare delle emozioni la forza di una narrazione mai banale, ricca di vita, in cui ciascuno di noi può incontrare sé stesso negli altri. 

Perché hai scelto di raccontare questa zona così difficile, in ombra, e cosa la rende così unica?

Ho sempre amato le storie apparentemente piccole e questo ha determinato una curiosità verso una dimensione che è quasi più defilata, più periferica. Mi piace la parola periferia perché nella periferia alberga forse la parte migliore degli uomini, di chi non ha una rete di protezione, di chi non è strutturato né per salvarsi né per fingere. La parte più vera. E questo concetto è come se mi avesse aperto la mente verso una dimensione umana legata al piccolo, a quello che non si scorge facilmente, a quello che è lontano, nascosto. Questo però fa parte del mio essere perché ho sempre amato la parte residuale della società, non mi ha mai affascinato quella più appariscente e sotto ai riflettori. E questa mia attitudine è diventata anche motivo del mio racconto: è come se avessi sposato la mia dimensione umana con quella professionale.

Lavorativamente, però, questa consapevolezza è arrivata in un secondo momento perché hai collaborato per anni con programmi d’inchiesta come Presa Diretta o in talk come Ballarò.

Ho capito che anche dal punto di vista della narrazione televisiva quello era un linguaggio che poteva avere uno spazio e che poteva permettermi di uscire dal racconto stereotipato del mainstream. Ho deciso quindi di non fare più l’inviato per i talk perché, essendoci delle tematiche predefinite, la mia libertà di movimento era ingabbiata dal tema della puntata. La bellezza di quello che faccio ora è che ho sempre una pagina bianca davanti a me e su questa pagina posso scrivere quello che in quel momento mi colpisce di più, che mi affascina e che mi incuriosisce. Io dico sempre che la mia è una trasmissione fortemente politica perché è uno spazio libero in grado di andare in tutte le direzioni.

Infatti in ogni puntata di Che ci faccio qui ci si rende conto che quella storia aveva la necessità di essere raccontata, che c’era l’urgenza di farlo.

Per questo motivo qualunque forma di racconto che faccio deve avere alle spalle un reagente umano, politico o sociale.

Nel modo di raccontare le storie entra il tuo mondo personale che è fatto anche di poesia e di cinema: quali sono le tue ispirazioni e perché?

Da ragazzo mi affascinavano moltissimo sia il cinema che la poesia. Forse il cinema mi è arrivato prima perché lo fa in un modo quasi più naturale, mi scalfisce e mi permette di acquisire delle cose che poi mi porto dentro. Io sono stato un grandissimo divoratore del cinema neorealista, mi ci immergevo, erano dei viaggi incredibili. E quella cosa credo mi sia rimasta dentro oggi perché mi ha permesso di avvicinarmi agli ultimi utilizzando quella metodologia che non è della finzione ma della narrazione reale. I protagonisti delle mie storie non si atteggiano ma dicono quello che pensano. Che poi è un po’ la visione del Neorealismo che voleva che fossero gli stessi protagonisti a diventare interpreti reali di quella storia. Mi sono poi reso conto, nel corso del tempo, che questo nutrimento cinematografico è diventato in qualche modo organico alla mia narrazione, lo sento dentro, è come se mi stesse vicino. Dopo il Neorealismo ho molto apprezzato la parte della documentaristica italiana che mi ha permesso invece di fare una immersione in autori che poi sono diventati il mio pane quotidiano. Ho amato immensamente Pasolini. I suoi film sono un diretto collegamento con il Neorealismo perché ne abbracciano le tematiche entrando nelle pieghe di una società sofferente. Ho amato anche tanto il lavoro che ha fatto Comencini con la serie sui bambini, I bambini e noi, in cui il loro candore ha permesso di raccontare uno spaccato di società. Tutte queste cose, ovviamente, si sono impastate e sono diventate una sorta di magma da cui attingo a piene mani: sono elementi che vivono dentro di me, che si evolvono e che cambiano a seconda degli input che mi arrivano proprio dalle storie che racconto.

Avvicinandoci ai giorni nostri, invece, cosa ti affascina di più? Da cosa trai ispirazione?

In assoluto la parte espressiva di Wim Wenders, la sua capacità di levitare, di stare sopra e di osservare il mondo. La trovo estremamente affascinante e devo dire che Il cielo sopra Berlino è una delle cose che ancora continua a ispirarmi perché in quella sua dimensione onirica c’è il senso profondo della poesia. E poi se dovessi indicare un film in assoluto più vicino nel tempo direi The Tree of Life di Terrence Malick con la sua visione circolare, meravigliosa della vita.

Che dimensione deve avere il tuo sguardo sulle cose?

Lo sguardo più importante è l’ultimo perché condensa ogni cosa. Lo considero uno sguardo privilegiato. Una volta, tanti anni fa, mi è accaduta una cosa e credo che sia una di quelle cose che mi è rimasta più dentro. Avevo portato la macchina da un meccanico fuori Roma, in un posto sull’Ardeatina, ed ero alla fermata ad aspettare un autobus che mi riportasse a casa. Era una strada assolata, faceva molto caldo, era estate. Sentii arrivare da lontano una motocicletta. All’epoca non si portava il casco quindi ho potuto vedere chiaramente chi la guidava. Quell’uomo non andava fortissimo quindi abbiamo avuto il tempo di osservarci. Non so spiegarti il perché ma ci siamo guardati intensamente per un lungo attimo fino a quando il motociclista non è sparito nella curva. Dopo un quarto d’ora ho preso l’autobus e, più avanti, ho trovato questa persona riversa a terra, senza vita. Aveva avuto un incidente e io sono stato l’ultima persona che lo ha guardato negli occhi. Ho ripensato spesso a questa scena che mi riporta alla mente proprio quella del film Il cielo sopra Berlino in cui un motociclista è sanguinante a terra e l’angelo Cassel, invisibile, gli mette una mano sulla spalla mentre tutta la gente gli si riunisce intorno. Per questo dico che l’ultimo sguardo è sempre il più prezioso della vita.

A proposito di cinema e di ultimi, in qualche modo, Marcello Fonte in una intervista ha dichiarato che non riuscendo a fare teatro si buttò a fare il cinema affermando «Volevo trasformare il veleno in medicina»: qual è stato il tuo veleno – se ce n’è stato uno – che hai trasformato in medicina?

Io provengo da una famiglia di piccoli imprenditori del Molise che avrebbero voluto che seguissi l’attività familiare legata ai lavori stradali e ai cantieri, così come hanno fatto i miei fratelli.
Le mie aspirazioni invece erano altre e ho dovuto pagare uno scotto molto alto per questa mia idea di ribellione a un’esistenza predeterminata. Per questa cosa ho lottato duramente, tanto che sono andato via di casa a diciott’anni. È stato quello il primo veleno che ho dovuto bere per poi trasformarlo in altro perché non avevo altra possibilità: o soccombevo o diventavo chi volevo essere. Mi sono assunto una responsabilità rispetto a me stesso e alla mia vita. Quando sono venuto a Roma facevo di tutto, ho fatto il lavapiatti, lo scaricatore ai Mercati Generali, lavavo i cani in un negozio per animali, ho fatto anche il venditore di salumi… di tutto. Però quegli anni lì mi hanno irrobustito da un punto di vista umano. Mi ero dato più o meno tre anni di tempo durante i quali avevo deciso che o riuscivo a fare il grande salto – ma già era entrata la televisione – oppure mi sarei piegato accettando il fatto che la vita non mi aveva concesso questa possibilità e sarei stato felice di fare altro. In questi anni invece sono accadute delle cose che hanno cambiato completamente la mia vita.

E in questo periodo l’incontro con la poesia è stato salvifico.

Sì, è stata un appiglio. La poesia mi ha permesso di guardare alle cose con una prospettiva sempre diversa. È come se mi avesse allenato a osservare il mondo sempre dalla parte contraria riuscendo così a scoprire cose incredibili. E poi anche la frequentazione con i grandi poeti, le letture, la parola pronunciata e letta, il verso, l’incipit. Quando giro le mie storie parto sempre da un inizio che ho pensato o immaginato. E quasi mai l’ho modificato. Tutto il resto, invece, è dettato dal rapporto, dal momento emozionale, da come si crea l’incontro. Io non preparo mai un’intervista, non scrivo mai le domande. So solo che andrò a incontrare quella persona, so che attraverserò quel luogo, ma devo essere libero di guardare negli occhi quella persona e di immergermi in quello che vedo.

Hai realizzato anche delle incursioni nel mondo del teatro che ti hanno portato a raccontare, tra le altre cose, oltre all’Odissea realizzata dal Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi, anche il carcere di Volterra e i suoi detenuti, guidati da Armando Punzo nella puntata Anime salve.

Un po’ di tempo fa mi hanno invitato a un festival e, rivedendo quella puntata, ho pensato che sia stato quasi un miracolo perché anche lì non c’era scritto nulla. L’abbiamo girata in tre giorni senza che io avessi avuto modo di conoscere le persone per raccontarne le storie. È stata un’operazione quasi metateatrale perché in fondo permetteva di raccontare il teatro all’interno di uno spazio che a sua volta poteva essere quasi uno spazio scenico, appunto il carcere. Il teatro in quello spazio diventava elevazione e liberazione. A pensarci è un atto rivoluzionario perché quegli uomini, rinchiusi, si liberavano continuamente.

Sporcarsi le mani con una osservazione partecipante ti permette di raccontare storie emotivamente coinvolgenti: come si fa a non lasciarsi coinvolgere da questi pezzi di vita ma allo stesso tempo avere la razionalità di consegnare un racconto onesto?

La dimensione è psicanalitica, quindi col tempo ho imparato che dovevo in qualche modo proteggermi da quella valanga di dolore. All’inizio non ero strutturato, non ero preparato e ho avuto fasi anche di sofferenza fisica. Mi ricordo che quando tornavo da un incontro ero costretto quasi a fare un’operazione di decantazione proprio di me stesso, perché mi sentivo stordito dall’esperienza degli altri. Pian piano ho imparato a sedimentare quelle emozioni, a esserne influenzato ma non sommerso, a non annegare nel dolore. E poi mi sono posto un obiettivo alto: per ogni storia, per ogni racconto mi sarei dovuto impegnare per risolvere una questione perché questo mi avrebbe permesso di essere ancorato alla realtà e di non fare soltanto un lavoro “estetico” ma di incidere. Ed è un obiettivo in linea con l’idea di tornare spesso nelle vite di chi ho già incontrato. Come per la puntata Ti amo ancora girata nel quartiere Borgo Vecchio di Palermo a cinque anni di distanza. Un modo per comprendere cosa è accaduto i questi anni che è quello che si dovrebbe fare quando si racconta. La vita non può sedimentarsi soltanto in un incontro, sarebbe parziale. Com’è accaduto nel caso di quel gruppo di ragazzi che ho lasciato sui banchi di una scuola media e ritrovati dopo qualche anno padri.

Come si stabilisce il limite oltre il quale non andare mai nel raccontare una storia? Ti è mai capitato di fermarti? Ci puoi fare un esempio? 

Nella puntata Sulla mia pelle, dedicata alla strage di Viareggio, Daniela Rombi, che in quell’inferno ha perso la figlia 21enne Emanuela Menichetti, morta dopo 42 giorni di agonia nel reparto grandi ustionati dell’ospedale di Cisanello, per una questione di intimità con me a un certo punto ha preso un faldone contenente delle foto in cui sua figlia era in una condizione terribile. Ho capito subito che è stato un atto che lei ha fatto perché sapeva che in quel momento poteva affidarsi intimamente a me. C’erano un paio di foto davvero difficili da sopportare e quindi sono stato io a chiudere quel faldone perché ho capito che l’avrei esposta troppo. Quando mi accorgo che c’è qualcosa che espone gli altri oltre loro stessi, per me è come se scattasse un allarme e quindi mi fermo. Lo racconto sempre: ai tempi di Presa Diretta stavo facendo un lavoro sulla Ndrangheta a Torino e parlavo dell’imprenditore Nevio Coral, ex sindaco del comune di Leinì sciolto appunto per infiltrazione mafiosa, in quel momento in carcere. Mi ricordo che stavamo girando ed ero nella fase “rapace” del mio mestiere perché svolgevo un ruolo che era legato a un format, a un racconto che si faceva ma non era il mio. Mi ricordo che passai davanti alla villa di questo signore e a un certo punto il cancello si aprì e uscì fuori una signora anziana. Era la moglie di Nevio Coral per cui di corsa l’avvicinai. Le chiesi se sapesse del marito e dei suoi incontri con gli esponenti mafiosi ma lei negò ritraendosi. Si capiva che si stava difendendo perché davvero non sapeva. A un certo punto però arrivò un postino che le consegnò una lettera. Lei con voce tremante mi disse che a scriverle era proprio il marito dal carcere. Ovviamente l’operatore si fiondò sulla lettera ma fu in quel momento che io mi dissi: ma che sto facendo? Misi la mano sulla telecamera, la spostai, invitai la signora a leggere con calma la lettera e me ne andai. Finì così. In quel momento avevo pensato che quella donna potesse essere mia madre e quindi decisi di fermare tutto. Il giornalista Francesco Specchia ne scrisse una recensione bellissima su Libero parlando di un «gesto d’humana pietas». Dopo un paio di giorni decisi di chiamarlo perché in quella recensione aveva saputo cogliere delle cose profonde di me. Durante la nostra telefonata mi raccontò che mentre stava guardando quel servizio ricevette la chiamata del padre che gli chiese proprio di quel servizio di Presa Diretta e a cosa avesse pensato. Francesco rispose: «ho pensato alla mamma». Questa cosa mi ha fatto capire che se hai una chiave di lettura, se guardi con attenzione cosa hai intorno, se sei aperto, ti arrivano delle emozioni che si possono condividere: è questo il senso. Ecco perché dico che la televisione, quando non ha mediazioni, riesce a creare una sorta di coinvolgimento generale, riesce a darci delle possibilità altre di comunicazione.

Dopo aver raccolto le storie arriva il montaggio, momento al pari importantissimo perché è lì che tutto prende davvero forma: come costruisci le tue storie? Il tuo montatore è sempre lo stesso? 

Per dieci anni ho lavorato sempre con lo stesso montatore che poi, ahimè, ho dovuto perdere quando ho deciso di non produrre più i miei programmi all’interno della Rai perché lui è un interno e io no. È stato un vero e proprio lutto. Mi sentivo in qualche modo orfano di mio fratello. Igor Francescato è stato il mio braccio destro perché aveva il mio stesso tipo di approccio e quindi sapeva esattamente come procedere con il lavoro anche senza indicazioni da parte mia. Mi conosceva così bene che quando montava un’intervista non aveva neanche bisogno di scalettare perché sapeva quale sarebbe stato lo sviluppo di quella storia, è come se fosse stato a fianco a me durante le riprese. Lasciata la produzione interna Rai, però, devo dire che ho avuto la fortuna di incontrare tre montatori altrettanto bravi, Guia Arcucci, Benedetta Raucci e Marco Rovetto, con i quali ho dovuto creare una nuova metodologia di montaggio, spesso in maniera contemporanea su più fronti e per cui più complicata da gestire. Con loro ho dovuto anche lavorare a distanza nel periodo del lockdown, che è una cosa pesantissima perché il montaggio va fatto in presenza. Ma loro sono bravi e tra di noi c’è una bellissima collaborazione.

In una televisione sempre più urlata e di corsa, arrivi tu con la tua calma, le tue pause, i tuoi silenzi: è stato difficile all’inizio far passare questa tua narrazione?

All’inizio sì e ne parlo anche nelle prime due puntate del mio podcast radiofonico Il sillabario delle emozioni che sono una sorta di manifesto del perché faccio questo. Quando incontrai Antonio Di Bella, allora direttore di Raitre, gli parlai proprio di inchieste morali, rallentamento, reintroduzione delle pause. Forse gli sembrai un alieno e infatti rimase un po’ interdetto però mi chiese di immaginare una puntata. Decidemmo allora di fare un decalogo reimpostandolo in chiave moderna. Quando mi chiese di raccontargli uno dei comandamenti scelsi “non commettere atti impuri” e pensai subito alla Terra dei Fuochi che era un tema di cui non si parlava tanto in tv in quel periodo. Mi ricordo che avevo incontrato un prete che fungeva da collante con la società civile, don Maurizio Patriciello che poi è diventato molto conosciuto, però all’epoca non lo era. Andai a sentire una sua omelia a Caivano e ne compresi la forza e l’impegno civile. Quella puntata riaprì il tema dell’inquinamento nella Terra dei Fuochi e la costruii proprio come volevo io, senza intromissioni politiche. Sai quante volte i politici mi chiamano per suggerire degli argomenti? Ma io non cedo, nel mio programma i politici non entrano mai. 

Che ci faccio qui è il titolo del tuo programma: se ti facessi questa domanda cosa ti risponderesti?

Io non so che ci faccio qui, sinceramente non lo so. Anzi, non lo so mai. Ogni volta però che termino un viaggio dico: ecco, era giusto che andassi lì, che io fossi lì. La mia idea però del che ci faccio qui più generale è che ancora non so esattamente se quello che sto facendo qui o in questo momento sia quello che vorrò fare anche domani. Ho sempre una sorta di incertezza che mi assale. E qui probabilmente vado ad attingere anche a quella che è la dimensione di Bruce Chatwin che si trova spaesato. Mi sento come lui che, con la febbre addosso nel letto con la malaria si chiede: che sto facendo qui? Certe volte mi dico che se la televisione dovesse pian piano chiudere un po’ il mio punto di osservazione non esiterei a fare dell’altro, a tornare tra la gente. Mi piacerebbe, per esempio, fare un lavoro in grado di farmi stare in mezzo alla gente, un teatro di narrazione, un modo per mantenere vivo il rapporto tra me e le persone. Se io non potessi sentire la parte viva del mio racconto che raggiunge chi mi vede, mi metterei a fare un lavoro di questo tipo che non ha mediazioni, non ha censure, non ha distanze.

E a proposito di distanze, considerando il periodo difficile che stiamo attraversando in primis come esseri umani, prima il covid con la distanza fisica, ora la guerra che in qualche modo è come se ci stesse anestetizzando di fronte alle brutalità della vita, vorrei invece che ci lasciassimo con un augurio: qual è l’augurio che Domenico si fa oggi?

L’augurio che faccio a me è quello di non raffreddare la mia curiosità. Sai qual è la mia paura? Di non poter raccontare le storie. E quindi l’augurio che mi faccio è quello di poterlo fare sempre. Non so se attraverso la televisione, la radio, non so se in mezzo alla strada. Non lo so, però mi auguro di raccontarle.