Parlavano di me. Dal panino al tonno alle scarpe rosse di Sergio Roca

Ci sono delle problematiche o delle malattie di cui ancora oggi è difficile parlare. In alcuni casi anche l’uso della parola che le definisce in maniera scientifica può risultare imbarazzante. A titolo di esempio, almeno fino alla fine degli anni Settanta, era pressoché impronunciabile la parola tumore sostituita con male incurabile come se l’omettere il lemma originario avesse un effetto apotropaico.
Ancora oggi alcune malattie fanno vivere, a coloro che ne soffrono e alle persone a loro più care, una certa forma di pudore (non sano) che cerca di mascherare la realtà rendendo più difficile, di fatto, la cura delle stesse. A volte capita per la dipendenza dalla droga o dal gioco d’azzardo ma anche, come nel nostro caso, da patologie come l’anoressia. È l’anoressia, infatti, l’argomento dello spettacolo Parlavano di me andato in scena al Teatro Altrove Studio di Roma tra il 9 ed l’11 novembre 2018.

Una ragazza (Francesca Nerozzi) danza all’interno di un parallelepipedo formato da barre in metallo, sembra una gabbia: una prigione nella quale è intrappolata; ne esce per cominciare un dialogo “virtuale” con la madre che è rappresentata da un cappotto – vuoto – appeso sul lato opposto della scena. Lei (n.d.r. userò il pronome Lei per definire la protagonista della storia in quanto il nome non è definito nella narrazione) si lamenta che delle signore l’hanno criticata, di nascosto, perché avrebbe le gambe grasse: «parlavano sottovoce ma le ho sentite bene».
Siamo nel mondo dei concorsi di bellezza. Tra le ragazze (tutte rigorosamente descritte-impersonate dalla Nerozzi), apparentemente amiche e complici, si vive di gelosie, ripicche e invidie. La concorrenza è spietata, per ottenere una comparsata in televisione o per una qualche visibilità pubblica sono disposte a compromessi di ogni genere. Tra le colleghe di Lei una aspirante reginetta si concede ad un personaggio TV nella vana speranza di essere raccomandata per la conduzione di una trasmissione in una televisione privata; un’altra si accompagna con un uomo molto più grande che millanta di essere facoltoso col solo scopo di avere uno chauffeur a disposizione; una terza realizza che è molto più redditizio ballare, nuda, in un locale notturno piuttosto che vivere nella “mischia” delle aspiranti miss. Solo una, la più fortunata, riesce ad ottenere, in cambio della propria “accondiscendenza”, una piccola parte in una serie televisiva. È un ambiente dove regna una solitudine profonda, dove è obbligo apparire allegre, belle, curate, a dispetto, spesso, della realtà emotiva. Un paio di scarpe rosse, col tacco, inchiodate al centro del palcoscenico, rimandano all’idea di quanto si possa rimanere prigionieri della propria immagine-professione.
Lei ha un ragazzo, sicuramente non il migliore degli uomini, geloso com’è, ma – pur con i suoi limiti e nella sua “grettezza”- è concreto e la incita a cambiare vita: a occuparsi dello studio, a mangiare di più. Questo, però, la fa sentire ingabbiata, soffocata, tanto da preferire la solitudine all’amore ed è per questo che lascerà e si farà lasciare.
In un flashback “rivelatore” Lei rammenta di quando, bambina, da un’amichetta, stava per assaporare un panino col tonno. La madre giunta per ricondurla a casa, le impedirà di assaggiare la “leccornia” mentre a cena le imporrà, senza successo, di mangiare una minestra in brodo. È un ricordo doloroso, che riaffiora ciclicamente, una ferita profonda mai rimarginata perché, come dice la protagonista: «certi ricordi sono come la merda: non vanno mai a fondo». Volutamente non termino la sinossi dello spettacolo per invogliare i lettori ad assistere ad una delle sicure, prossime, repliche.


La narrazione teatrale è efficace. Francesca Nerozzi recita, mima, balla con estrema naturalezza senza sbavature evidenti. Nella messa in scena è sempre sola a parte nelle brevi (ma indispensabili) “incursioni” di Marco Zingaro che ha curato anche la regia del lavoro. L’esposizione della vicenda, pur trattando un argomento delicato, viene proposta con quel distacco ironico che concede, almeno nella prima parte della storia, qualche sana risata. È una narrazione epica, valida per migliaia di situazioni simili. Nessun dubbio sull’ottima qualità dello spettacolo a parte qualche difficoltà nel rendere immediatamente comprensibile l’evento conclusivo che richiede qualche attimo di attenzione supplementare, per portare gli spettatori all’immedesimazione.
Parlavano di me ci impone più di una riflessione in quanto ci suggerisce che: occorre – sempre – pensare alle conseguenze delle nostre parole/azioni; in un mondo il cui l’edonismo è padrone, l’umanità è serva; se qualcuno cerca di spingerci all’interno di una cella, spesso, siamo noi stessi che chiudiamo alle spalle la porta che ci renderà prigionieri per sempre.

 

Parlavano di me
di Giuseppe Grattacaso
con Francesca Nerozzi e la partecipazione di Marco Zingaro
regia Marco Zingaro
musiche Tommaso Allegri
realizzazione scenica Marco Zingaro
illustrazioni Cristina Gardumi
grafica Alessandro Zingaro
foto Filippo Belperio
Teatro Altrove Studio, Roma, dal 9 all’ 11 novembre 2018.