Margine Operativo: la libertà di attraversare i confini del contemporaneo di Laura Novelli

L’immagine di copertina è un’illustrazione di Toni Bruno in cui si vede una ragazza in felpa e anfibi squarciare il velo buio di una notte metropolitana e incamminarsi dentro un fascio luminoso che colora la città sullo sfondo di sfumature giallo – ocra e rosse. In questa visione – che è anche e soprattutto – “un’azione” si condensa in modo emblematico il senso di un bel volume pubblicato a novembre scorso da Editoria & Spettacolo dal titolo I teatri di Margine Operativo.
Il libro, a cura di Andrea Pocosgnich, è l’ultimo nato all’interno della collana Spaesamenti diretta da Paolo Ruffni e appare, già solo sfogliandolo, come un crocevia di sguardi critici e documentaristici “multipli”, obliqui, complementari, che riescono a restituire da ottiche diverse la molteplicità – appunto – propria del lavoro della compagnia romana. Fondata da Alessandra Ferraro e Pako Graziani nel 1993, Margine Operativo è infatti una delle realtà indipendenti più attive della scena capitolina e nazionale, e questo studio ben riesce a renderle ragione proprio perché intercetta in pieno, nella forma stessa del suo progetto editoriale, la natura eclettica, proteiforme, pervasiva, operativa che ne connota la creatività.
Oltre ai tre corposi contributi del curatore (l’introduzione, una lunga intervista a Ferraro e Graziani e l’illuminante saggio Margine Operativo. Un teatro politico per indagare la realtà), la parte saggistica dell’opera presenta anche un’accurata riflessione critica di Letizia Bernazza, Margine Operativo. Un teatro di identità, indipendenza, resistenza e bellezza (incentrata soprattutto sul lavoro drammaturgico del gruppo e sulla sua radicalità nel “presente”), una sezione di Memorie scandita da testimonianze di artisti e operatori che con la compagnia hanno fatto – e/o fanno tutt’oggi – un pezzo di cammino artistico e umano (tra gli altri, Riccardo Boldrini, Tiziano Panici, Michele Baronio, Tamara Bartolini, Andrea Cota, Chiara De Angelis), e un’ariosa postfazione di Paolo Ruffini (Altri immaginari il titolo), il quale ribadisce la portata materica e insieme simbolica del luogo, del corpo “spaziato”, del “tra”, quali conditiones sine qua non della prassi artistica qui indagata.
L’articolazione di questo robusto pensiero critico pluriangolare – che tocca tutti i grandi ambiti di intervento della compagnia, sarebbe a dire: i processi, i codici, i temi e gli spazi – permette pertanto di leggere con maggiore consapevolezza sia i tre testi editi nel volume, Partizan Let’s Go!, Presunta morte naturale, Al palo della morte (lavori recenti del gruppo; «tre testi» – scrive Pocosgnich – «nei quali è inevitabile rintracciare una maturazione del linguaggio proprio nel solco di un teatro dai tratti estetici e politici originali»), sia l’apparato fotografico, la teatrografia e la preziosa ricostruzione di festival ed eventi che il gruppo ha promosso, inventato, organizzato nel corso della sua ormai più che ventennale carriera. In particolare, l’accento posto sulla vetrina Attraversamenti Multipli, che Margine Operativo ha realizzato a partire dal 2001 in diversi luoghi della capitale (le ultime edizioni nel quartiere del Quadraro), facendosi vettore di sinergie creative sempre più pluridisciplinari e fecondamente “indisciplinate”, sposa in modo quanto mai fisiologico lo spirito urbano e insieme vagabondo dei due artisti romani.
Dalle belle pagine critiche di Bernazza, emerge chiaramente la tempra combattiva del duo. Sempre attenti alle tensioni e pulsioni del reale o della Storia (la lotta partigiana, la xenofobia neofascista, il caso Cucchi, solo per fare degli esempi), Alessandra e Pako sono stati capaci di muovere il presente, muovendo azioni politiche e creazioni collettive che – paradossalmente – sembrano ricondurre il teatro alle sue radici più vere: la ritualità sociale di un atto necessario alla polis e l’attraversamento di linguaggi performativi che chiamano il pubblico dentro il mondo fictif dell’invenzione, per tradurlo in una possibilità concreta di cambiamento, di intervento nella realtà, di azione – e contest/azione – sociale e politica.
Tanto più che un filo rosso pressoché ininterrotto cuce le prime esperienze della compagnia, maturate nella fucina underground del Forte Prenestino e strutturate dentro l’alveo di quell’importante Progetto Majakovskij. Sangue nuovo nelle arterie della metropoli che coinvolse tre centri sociali di Roma e diverse realtà in un percorso artistico itinerante che, «partendo dall’anniversario» – spiega la stessa Ferraro – «dei cento anni della nascita di Vladímir Majakovskij, lo utilizzava come spunto per fare una riflessione sulle utopie e sulle avanguardie. Fu per noi da stimolo per la creazione della prima performance Macchina di redenzione […] che proponeva una riflessione sulla detenzione e sulle dinamiche del controllo».
È già in quell’iniziale scrittura di segni sospesa tra corpo e spazio, tra luogo agìto e corpo abitato, che si annidano le traiettorie più significative della ricerca futura di Margine Operativo: dal bisogno di sperimentare una fisicità che raccontasse l’esodo da un reale troppo angusto all’uso del video; dall’estetica del frammento all’approdo ad uno stile narrativo più compatto e conseguenziale (come ben chiariscono i contributi critici di Pocosgnich e Bernazza); dall’incessante bisogno di formazione (e autoformazione) fino alla ferrea volontà con cui il lavoro della compagnia cerca il dialogo con il teatro accademico e al contempo, sempre e comunque, con un pubblico quanto mai eterogeneo, persino casuale.
La casualità è d’altronde un tratto distintivo delle più riuscite pratiche di environmental theatre. Pratiche dove tuttavia a dettare i “margini” tra finzione e realtà è una precisa scelta stilistica. Dunque, una questione – anche – di estetica. E se il linguaggio di Margine Operativo ereditava, inizialmente, studi e percorsi laboratoriali universitari cementati da convinzioni teoriche ispirate giocoforza ai maestri della performance e della neoavanguardia (penso, ad esempio, a Richard Schechner e alla sua inossidabile Teoria della performance), nel tempo questa stessa estetica non ha mai perso il contatto con il presente, con la cronaca, con un “meticciato” linguistico di volta in volta aperto a nuove soluzioni, a nuovi incontri, a nuovi campi di ricerca.
Non è un caso, d’altronde, che già nella sua introduzione, Pocosgnich definisca la coppia di artisti come «tutt’altro che inquadrata in un genere ben preciso, in grado di attraversare e questo verbo è centrale in tutta la produzione – le arti performative trasversalmente; un gruppo che ha sempre considerato l’organizzazione di festival e rassegne come fossero opere artistiche estese nel tempo e negli spazi». Opere in cui anche il ruolo della recitazione svia dai cardini dell’immedesimazione per abbracciare soluzioni diverse, spesso un’epicità “post-drammatica” (impossibile non ricordare l’emblematico saggio di Hans-Thies Lehmann Il teatro postdrammatico) dove l’interprete non è più – o non solo – personaggio ma voce dissidente, conferenziere, narratore, cantante. Ecco dunque che «l’attore» – come scrive Bernazza – «si fa portavoce delle storie raccontate. Il suo dire è una necessità. È una parola viva che arriva come una freccia al cuore dello spettatore, mettendo in moto sentimenti ed emozioni, ricordi e pensieri».
Restituendo centralità e senso alla Parola “non vuota”, i lavori di Margine Operativo sembrano, in definitiva, voler connettere il nostro presente e le sue contraddizioni con un’azione poetica e politica tesa al superamento del “margine” stesso che li nomina e li definisce. Come se la vera unica possibile marginalità – oggi – fosse il bisogno caparbio di credere in un mondo migliore. «Noam Chomsky» – dichiara a tale riguardo Pako Graziani nell’intervista rilasciata a Pocosgnich – «nel suo ultimo libro scrive: possiamo essere pessimisti, darci per vinti e quindi lasciare che accada il peggio. Oppure possiamo essere ottimisti, cogliere le opportunità che certamente esistono e in questo modo cercare di fare del mondo un posto migliore. Non c’è altra scelta. Credo che nel nostro tentativo di fare del mondo un posto migliore risieda l’essenza politica del nostro agire nell’arte».

 

I teatri di Margine Operativo

a cura di Andrea Pocosgnich
Editoria & Spettacolo, Spoleto (Pg), 2018, pp. 151, € 16,00.