Lo skyline modulare della danza contemporanea: appunti intorno a La danza 2.0 di Alessandro Pontremoli di Paolo Ruffini

Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo,
per percepirne non le luci, ma il buio.
Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo

 

 

«La danza è arte vivente dei corpi, fondata sul corpo. Un dato di per sé evidente che, però, non basta a conferire a questa pratica lo statuto di un’attività che si esaurisce nella costituzione corporea. Detto in altri termini, se il corpo è il mezzo attraverso cui si esprime, cionondimeno, la danza non manifesta solo la corporeità. In un certo senso, essa è più del corpo. Al tempo stesso, potremmo dire che è corpo e non è solo corpo. […] La danza contemporanea è arrivata a definirsi “concettuale” o “non danza” dissolvendo, ad esempio, la sua tradizionale sostanza di arte in movimento, un elemento, questo, che talvolta diviene solo una delle possibili declinazioni delle poetiche coreografiche. Tutto può diventare danza, il gesto più “banale”, come il più “immobile”, fino, appunto, a una danza che non si muove più» (1). Di cosa parliamo, quindi, quando nominiamo la danza? Questa la domanda, tra le altre, scaturita dalla serie di incontri intitolati “Porta un pensiero” e curati da Roberta Nicolai e Giulio Sonno in seno al Festival romano Teatri di Vetro (2). Appuntamenti che hanno affiancato gli spettacoli e volti a scardinare dialetticamente una serie di definizioni fuori dalle abitudini accademiche e che possano attivare con pertinenza la lettura non superficiale di quei processi artistici che attualmente tracciano traiettorie linguistiche complesse, non soltanto visive o gestuali, dunque, ma altresì processuali e relazionali nel mood di una liquidità disciplinare. Al termine di queste giornate di “lavoro” e confronto fra operatori, coreografi, registi e performer, riprendendo l’adagio popolare è emerso che, come è noto, la bellezza risiede nell’occhio di chi guarda. Quanto mai vero! Quanta verità, quanta aderenza percettiva in questo “semplice” afflato che in ambito artistico ci torna utile per ridefinire le proposizioni, i gesti d’arte, le intenzioni più che gli stessi esiti dei processi artistici, in particolar modo rispetto alla sfera di interlocuzione con l’altro, con l’osservatore o il partecipante a quel gesto d’arte. Ma non solo. Quel motto ci dice molto, tra l’altro, sull’utilità dell’atto stesso, sulla sua anti-economicità e gratuità in quanto atto, che può creare ma allo stesso tempo mettere in dubbio, incidendo sia sul contenuto che sulla pratica, i postulati del movimento (se pensiamo alla danza, per esempio), dello spazio che lo nutre e del “paesaggio” entro cui agisce. La questione, allora, sembrerebbe riguardare il modo di analizzare i processi artistici e i loro esiti, le aspettative e i pre-concetti che gravano sulle spalle della decodifica di quelle esperienze. La danza, oggi, “la danza 2.0”, mette in crisi, stressandole, non solo le nozioni di spazio, tempo e movimento, quanto piuttosto l’ambito culturale entro cui esse sono agite. Forse avere uno sguardo depositato in quelle iscrizioni fuori formato contribuirebbe a riposizionare i paradigmi del linguaggio e a esorcizzare i bisogni della società dello spettacolo, la quale ormai disinvoltamente si auto definisce tanto nei circuiti del consumo culturale quanto in quelli dell’opacità residuale delle sopravvivenze indipendenti. Tutto è spettacolo direbbe Guy Debord, ma non tutta la «trascendenza immaginante del visibile verso l’invisibile» (3) vi è compresa, anzi, piuttosto, non ultima l’eredità consunta del postmoderno non aiuta a cogliere quanto i media contribuiscano in realtà a una nuova lettura del presente nel riposizionamento culturale della danza e della performance all’interno dello spazio sociale. Fabio Acca (4) parla di una generazione di artisti appartenenti ad una scena anfibia, composta da espressioni che pongono, oggi, ulteriori questioni «nell’ambito della coreografia, ne mettono in discussione le fondamenta, tanto da rendere spesso difficile l’inquadramento esclusivo delle loro creazioni nella cornice disciplinare della danza; semmai vi si riconoscono nella complicità di riferimenti, nella capacità che i loro lavori hanno, osservati nel complesso, di generare inedite concatenazioni di discorso intorno al corpo, al movimento, alla scrittura scenica. Si tratta di artisti che lavorano lateralmente allo spettacolo, problematizzandone i principi che li governano: sia in termini produttivi, sia in termini percettivi». Difatti, proprio a fronte di una desertificazione conclamata della critica, ormai sedentaria nei limiti dell’imperitura inquisizione, il gesto d’arte cerca se stesso, cerca una possibile altra investigazione di sé abbandonando lo spazio autoritario dello stilismo, lo scranno identitario della forma, per muoversi in quello che Geoffroy de Lagasnerie chiama lo spazio dello scontro (5), ovvero lo spazio pubblico. Erano stati Fabrizio Cruciani e Clelia Falletti a ricordarci già verso la metà degli anni ottanta del Novecento che il teatro del ventesimo secolo è una forza centripeta nella cultura del secolo che allarga le sue frontiere senza pregiudizi. Non ha più convenzioni come non ha più egemonia, è una risacca minoritaria rispetto alla sua funzione nella cultura di un Paese, come il nostro, che progressivamente sta uccidendo gli immaginari per appiattirsi in una dimensione desiderante omologata. Cruciani e Falletti parlavano di civiltà teatrale, noi la intendiamo al plurale, riferendoci al termine “civiltà” come ad un arcipelago di narrazioni, pratiche e soprattutto immaginari non aderenti a una sola tradizione. Avvertiamo la necessità, sembra ricordarci Fabio Acca, di guardare a più tradizioni, ai diversi orizzonti, alle molteplici esperienze nella scia di quello smottamento dei modelli proposto a suo tempo da Eric Hobsbawm.
Scrive Fabio Acca: «In questo senso il rapporto con una qualsiasi matrice appartenente alla tradizione della danza, benché dichiarata, si risolve nel superamento di una tentazione filologica, con un richiamo, questo sì generazionale, al politico e a una sensibilità che piega la lettura del corpo in movimento a una ipotesi più estesamente culturale» (6). E se la tradizione fosse un’invenzione, ammesso di essere d’accordo con l’assunto di Hobsbawm, cosa invochiamo quando interpelliamo la tradizione per “tradurre” una esperienza d’arte in questo tempo di opposizione alla contemplazione, questo tempo di incontro con quelli che Viviana Gravano chiama i “paesaggi attivi” (7) di una scrittura senza oggetto? A un codice? A una matrice? A un canone? Quali immaginari entrano in gioco? Hanno ancora il valore dell’esattezza esegetica? Quali sono gli elementi che ci restituiscono la sovversione nella composizione, anzi la sua messa in crisi? A proposito di immaginario, torno a quanto Fabio Chiusi ci ricordava, e cioè che è «un processo affine alla dominazione ideologica, che sempre si pone come priva di alternative; ma è anche un altro modo del primato della tecnica sull’arte, un concepire la cultura di massa come dipendente più dell’esattezza chirurgica, ingegneristica di astronavi mai esistite che dell’umanità, e dunque dalla curiosa inesattezza, di chi li guida. Sopravviveremo, insomma, ma saremo a ogni scontro più inquinati, meno liberi di creare e meno liberi in ciò che era già stato creato, e avevamo assimilato e fatto nostro. L’immaginario che diviene rigurgito ci toglie l’appetito per altro immaginario, è questo il problema. Non la “post-ideologia” dove tutto si equivale, ma il dominio dello stesso. Una spirale più stringente, più indifferente e insieme letale a ogni giro» (8).
Alessandro Pontremoli è uno studioso, una figura abituata a cogliere da latitudini e longitudini anche opposte della danza stimoli non scontati misurandocisi frontalmente, con una capacità davvero rara di scantonare dal proprio gusto personale nell’osservazione. E scantonare dall’ovvio, in altre parole, è il problema in cui ci troviamo storicamente. Un approccio, il suo, da storico, come lo storico sa fare e dovrebbe saper fare, ma con una rara chiarezza analitica. È di recente pubblicazione il suo La danza 2.0 – Paesaggi coreografici del nuovo millennio, un volume che riesce a dare un inquadramento teorico al vasto panorama della danza italiana, ridisegnando le mappe concettuali che ne sorreggono il pensiero e quelle interlocuzioni linguistiche apparentemente fuori dal seminato coreutico. Il punto di vista adottato è utilissimo a collocare nel nostro tempo, in questo tempo presente non più novecentesco e tuttavia nostalgico di futuro, il discorso di autodeterminazione e rifrazione estetica, fenomenologica della danza, oggi, e dei suoi antagonismi. I paesaggi “raccontati” da Pontremoli, perciò, sono testimonianze di percorsi spesso non regolari, che pure dallo specifico della loro postazione, contribuiscono ad un ripensamento generale del teatro, segnando un punto di non ritorno nello spostamento dello sguardo. Non a caso, è della danza il momento più fecondo della scena contemporanea. Così l’autore si nutre di pensieri che stanno nell’alveo della filosofia, approfondisce i problemi della percezione e del ruolo dell’arte nel sociale, si misura con il costante refrain della significazione del corpo – un corpo scenico certamente – ma portatore di valenze e interferenze culturali. E ci fa incontrare inevitabilmente la materia del senso di Giorgio Agamben, la logica di Jacques Derrida e la complessità del pensiero di Michel de Certeau, dal quale attingere prassi antropologica e pensiero sociale. E ancora Nicolas Bourriaud e la sua estetica relazionale che pone l’accento sulla condivisione dell’esperienza. Ci ricorda come Jean-Luc Nancy abbia spostato l’asse da diversi anni e le sue iscrizioni paratattiche hanno ripensato il concetto di corpo e con lui abbiano aperto nuove strade di indagine sui significati e gli archivi gestuali, che accompagnati alle processualità documentali di Maurizio Ferraris, danno un quadro piuttosto puntuale dei nuclei tematici affrontati nel libro: dal corpo-opera al corpo-persona, dalla condizione alla presenza del danzatore. Il Novecento e gli anni duemila vengono decriptati con grande passione e competenza, cercando di contestualizzare quelle azioni che riempiono di senso la pratica motoria, come anche lo spazio sociale che le genera e le identità che le innervano. Identità, anche qui al plurale, lambendo il genere e la prassi. Cosa rappresenta il corpo della danza, si chiede Pontremoli, di quale sguardo parliamo e a quale sguardo si rivolge? Lo skyline della danza contemporanea è modulare, le sue appartenenze ricordano i paesaggi di Gilles Clément, il corpo esposto e visitato o messo in rete ci chiede un nuovo codice interpretativo. La tradizione sembra vacillare di fronte a questo eccesso di realtà senza rappresentazione. Il corpo si mostra come archivio di memorie, insomma, un deposito di figure in quella concrezione fisica, pronto a rinegoziare il proprio statuto di persistenze, di rievocazioni. E noi ne rileviamo tracce, presenze appunto, in una durata che non è esteriorità ma cerniera, di relais parla Pontremoli, un corpo anteriore fra presenza e assenza, fra soggettività e oggettività, fra un prima e un dopo. La sua preposizione di lasciarsi danzare dalla danza ci rivela molto del lavoro di Cristina Kristal Rizzo; gli oggetti sociali e i comportamenti fissati nella memoria prima ancora di essere espressi dal linguaggio potrebbero raccontare, ad esempio, i lavori materici di Kinkaleri; come il teatro non dominato dal logos è il mondo di riferimento di MK. Artisti questi, solo per citare alcuni esempi, il cui lavoro sembra essere rivolto a generare comunità istantanee (o come le chiamava Stefano Geraci, comunità provvisorie), in cui danzatore e spettatore possono riconoscersi in un atto di prossimità, fuori dalla cristallizzazione del codice «per vivere lo spaesamento della sottrazione ai meccanismi del mercato e dello spettacolo» (9).

Note

1)C. Di Rienzo, Per una filosofia della danza. Danza, corpo, chair, Mimesis, Milano, 2017, pp. 17 e 19 .

2)Cfr L. Bernazza, Oscillazioni e il potere trasformativo dello spettacolo: conversazione con Roberta Nicolai , in liminateatri.it (https://www.liminateatri.it/?p=574).

3)Di Rienzo, op. cit., p. 90.

4)F. Acca, Scena anfibia e nuova danza, in Ivrea Cinquanta – Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967 – 2017, (a cura di Clemente Tafuri e David Beronio), AkropolisLibri, Genova, 2018, p. 184.

5)Cfr G. de Lagasnerie, L’arte della rivolta. Snowden Assange Manning, Stampa Alternativa, Roma, 2016.

6)Cfr F. Acca, La danza nell’era della retromania, in liminateatri.it (https://www.liminateatri.it/?p=574).

7)Cfr V. Gravano, Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione, Mimesis, Roma, 2012.

8)F. Chiusi, in L’Espresso, Gedi Gruppo Editoriale Spa, Roma, 14 gennaio 2018, pp. 76 , 77.

9)A. Pontremoli, La danza 2.0 – Paesaggi coreografici del nuovo millennio, Editori Laterza, Bari-Roma, 2018, p. 118.

 

Alessandro Pontremoli, La danza 2.0 – Paesaggi coreografici del nuovo millennio, Editori Laterza, Bari-Roma, 2018, pp. 194, euro 19,00.