LIBERTEATRI > L’anarchia comunitaria di Carlo Quartucci. Sul volume di Donatella Orecchia di Paolo Ruffini

La responsabilità degli intellettuali, direbbe Noam Chomsky, quel modo di essere presente al proprio tempo con verve antagonista, sebbene pur sempre in continua dialettica con le “cose” e le “parole” che possono mettere in crisi, in trasformazione, il proprio pensiero: ecco, Carlo Quartucci è stato ed è un riferimento costante non soltanto dentro il micro sistema del teatro italiano (e internazionale) ma, ancora di più, una figura cardine del pensiero libertario nell’arte, attraverso l’arte, pronto a ricominciare ad ogni arresto di stagione, libero di ritrovarsi e perdersi, per poi ritrovarsi, tra materiali scenici, ingegni e labirintiche narrazioni, sfrontate e arcaiche ibridazioni fonetiche. Carlo Quartucci è stato ed è uno dei pochi intellettuali responsabili che il secondo Novecento ci ha regalato. Trasfigurato nella silhouette metafisica di un Chisciotte, Quartucci ha traghettato il teatro avanguardistico (sperimentale, di ricerca, di letteratura, di sostantivanti oggetti d’arte e molto altro ancora, finanche un ante litteram camminamento relazionale intra-mondo negli spazi urbani e negli spazi d’arte, o con il suo fatidico Camion nelle province meno battute dal teatro) verso un afflato poetico unico nel panorama italiano, mantenuto fino alla fine. Era il suo fiato, la sua memoria, l’artista contemporaneo più concentrato dentro quella idea di poesia come vita così da riattualizzarne il senso ogni volta, ad ogni nuovo processo creativo sia volto allo spettacolo che alla pedagogia; poesia come inedito accento critico – e dunque politico – sul mondo, derubricando in un armonico, inaspettato paesaggio drammaturgico il significato del concetto stesso di poesia: parola che si fa azione e memoria, recupero e fuga in avanti, realtà storica e fantasmagorie intangibili, metalinguistiche. È la «compresenza» degli elementi che definisce l’unicum dell’artista Quartucci; la parola è di Donatella Orecchia, storica del teatro e studiosa di storia orale, che in un recente volume dedicato ai primi venti anni di vita scenica di Quartucci, ricostruisce con dovizia di particolari e con passione dichiarata una avventura umana generatrice di esperienze e di incontri che hanno spostato per sempre la retorica sulla forma e sulla comunicazione sceniche, e che hanno finalmente avuto il coraggio di prendersi la parola per mostrare il sentimento e la forza di artisti non imbrigliati nelle logiche delle rendicontazioni ministeriali, al di là dello scarto generazionale. Il percorso di Quartucci diviene allora una metafora, con la quale riconoscersi e riconoscere un tempo e uno spazio altro di possibilità creativa. Un libro, questo della Orecchia, che è al contempo un posizionamento e un gesto d’amore. Stravedere la scena – Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959 – 1979 si legge come un romanzo di formazione, architettato per “stazioni” di una biografia sempre in movimento in cui lo spettacolo, gli spettacoli sono processi e relazioni, equilibri e testimonianze. Ci si immerge nella vita dei suoi protagonisti di quegli anni restituendone un colore e un sound, un archivio “memorabile” dove le tappe degli anni di Roma e Genova e poi quelli veneziani, l’amicizia “materica” con Jannis Kounellis, le domande su quale regia e quale rinunce concettuali preveda questa forma di “governo” della scena indirizzandosi verso una composizione nell’orizzontalità del disegno dove si animano i corpi-azione, corpi-suono dei vari Riccardo Caporossi, Claudio Remondi, Leo de Berardinis, Roberto Lerici, Renato Mambor (per citarne un’area) e successivamente Rino Sudano, Roberto Herlitzka, Luigi Cinque, Giulio Paolini, Luigi Mezzanotte e la sublime e immensa bellezza di Carla Tatò, poi, quella “attrice-narratore” da epifaniche eco e “voluminose” risonanze (all’insegna di quel distanziamento “metrico” catturato a Carmelo Bene), sua compagna di vita e d’arte, alter ego e musa ispiratrice con la quale condividere «una scelta che è artistica, esistenziale ed etica» al punto di motivare persino «una profonda messa a repentaglio anche di sé». Il libro racconta la felice distonia, la straordinaria irriverenza verso i testi classici, l’amore profondo per la parola irta di segmenti significanti che assegnano al corpo una “postura postuma”; la scrittura si rende modulare ed entra e esce dal memoir per approfondire con sistematica ricostruzione storica un pensiero filosofico, “mediato” dall’autrice, ma davvero efficace nel proporre indizi o strade interpretative di cotanta storia scenica con la quale si ha a che fare. Per questo è un libro bellissimo, pieno di umori e affastellamenti esegetici dove il corpo attoriale è filtrato sì sull’esperienza di un «discorso anti-ontologico sul genere di Judith Butler», ma si misura anche con una recitazione che lì comincia ad essere straniata ed epica, orchestrando in soggettiva una ipotesi ulteriore recitativa, figlia «di una impossibilità prima e di una fragilità poi, la scoperta di una dimensione nuova, inaudita, di stare in scena». Quartucci femminista. Quartucci impalcatura del pensiero. Corpo egli stesso della Zattera di Babele e negli ultimi anni di quel laboratorio casalingo ch’è stato Teatr’Arteria. Un “abecedario” apre alla condivisione dei termini all’inizio del volume chiosando felicemente Quartucci come un «regista disturbatore, servo di scena, attore mimo e direttore davanti alle quinte», seguiranno i pensieri rivolti ad edificare il teatro, all’opera di contemplazione, all’imperativo del dire e all’utopia: un fuori fuoco, «fuori dal teatro, dalla sua ideologia e dalle sue condizioni di ambiente e di produzione». Le ultime pagine sono lasciate alla preziosa sintesi del rapporto di Quartucci con la radio ad opera di Rodolfo Sacchettini. Utopia, appunto, di un teatro non di prosa (ma addirittura di viaggio, di televisione oltreché sonoro). Un lascito visionario con il quale ancora oggi dovremmo provare a confrontarci.
Carlo Quartucci ci lascia il 31 dicembre 2019, la sua assenza è ora una voragine.

Donatella Orecchia, Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959 – 1979, Mimesis Edizioni, Milano, 2020, pp.362, euro 28,00.