Le “terre di mezzo” di Matteo Garrone di Alessandro Pisegna

Matteo Garrone è uno degli autori più rappresentativi e significativi del panorama cinematografico italiano. Il suo stile, la sua poetica e il suo modo di raccontare storie sono ben chiari, molto nitidi e definiti, fortemente riconoscibili. Il tratto della macchina da presa del cineasta romano è inconfondibile. Nel libro Matteo  Garrone curato da Christian Uva, pubblicato da Marsilio Editori, si ripercorrono tutte le tappe della carriera del regista, scandagliando in maniera precisa, puntuale e dettagliata il mondo creativo e narrativo di Garrone.
«Garrone è forse l’unico regista italiano contemporaneo che ha una capacità di trasformazione pittorica del mondo oggettivo». L’impronta evidente che denota il cinema garroniano è la capacità di trasfigurare il percettibile, la realtà, in base alla sua visione, trasformando e consegnando alla bruttezza, alla disarmonia, un significato ed un valore estetico.
Garrone preferisce ambientare le sue storie in luoghi degradati, poveri, poco rassicuranti, ma  grazie alla sua capacità visionaria di narrazione li erige in un’altra dimensione.  Christian Uva focalizza l’attenzione su alcune scene emblematiche delle pellicole del regista, per raccontare la sua cifra stilistica, il suo marchio di fabbrica. La scrittura è lineare, scorrevole e coinvolgente e fa immergere completamente il lettore sin dalle prime righe del volume. Scena significativa è la sequenza iniziale del film L’imbalsamatore (2002), quarto lungometraggio di Garrone. Una scena poetica, una fotografia astratta, con la macchina da presa che compie una panoramica da destra a sinistra, con la distesa d’acqua e i gabbiani fino a giungere alla visione dell’arenile. Questa lunga sequenza rappresenta un fil rouge nel cinema del regista: il concetto di  sospensione. «È la dimensione della sospensione a imporsi in quella lunga, inesorabile panoramica culminante con l’apparizione dello smisurato arenile che si configura quale zona mediana tra l’astratta superficie del cielo in cui si librano lievi le sagome dei gabbiani e la materica condizione della terra nella quale si impone, in tutta la sua opprimente presenza, l’enorme barriera di cemento costituita dai caseggiati». Tematica molto evidente anche nel primo lungometraggio di Garrone Terra di mezzo del 1996. Il film è articolato in tre episodi. Racconta storie quotidiane dure e difficili. La vita di alcune prostitute nigeriane, la ricerca del lavoro di due giovani manovali albanesi e l’esistenza di un benzinaio notturno egiziano. Tre vite sospese, in attesa di un’umanità. È proprio nella “terra di mezzo” che si fonda il pilastro cinematografico del cineasta. È lì  la sua grande forza comunicativa, narrativa ed emotiva.
«Terra di mezzo estetica tra vero e falso, bellezza e bruttezza, terra di mezzo etica tra virtù e abiezione, moralità e immoralità, decenza e indecenza; terra di mezzo esistenziale tra giovinezza e vecchiaia, età infantile e condizione adulta, vita e morte». Garrone è un attento  osservatore e uno “spietato” narratore, con la sua macchina da presa riesce a collocarsi al centro, in  perfetto equilibrio, tra realtà e fantasia.

Christian Uva (a cura di), Matteo Garrone, Marsilio Editori, Venezia, 2020, pp. 163, euro 12,50.