Le modernissime “Baccanti” sonore nella sperimentazione di Beercock Intervista a Sergio Beercock di Filippa Ilardo

Sergio Beercock è un performer anglo-americano, attore, poeta, cantante e attore di teatro. Un genio multiforme che parte dal teatro e va verso la musica, per tornare al teatro dopo avere attraversato vari linguaggi.
VoceCorpoRito è la sua raccolta di poemi sciolti. A Giardini Naxos, nell’ambito della manifestazione guidata da Fulvia Toscano Interpretare l’Antico, presso il Parco Archeologico, ci lasciamo piacevolmente sorprendere da una ri-lettura libera – tra il poetico e il politico – de Le Baccanti di Euripide con una performance dal titolo Oida. La regia è di Giuseppe Provinzano, mentre dello stesso Beercock sono la drammaturgia e le musiche.
La performance nasce dentro il Progetto Amunì, un laboratorio permanente multidisciplinare per la formazione ai mestieri artistici e tecnici dello spettacolo dal vivo finalizzato alla costituzione di una Compagnia MultiEtnica MultiCulturale e Multidisciplinare, composta da giovani stranieri richiedenti asilo, rifugiati, migranti. Vincitore del bando MigrArti e del Premio MigrArti 2018 al Miglior Spettacolo, il Progetto Amunì è portato avanti da Babel – con il coordinamento di Giuseppe Provinzano.
In scena i giovanissimi Naomi Folasade Adeniji, Julia Jedlikowska, Gianmatteo Marie, Alfred Sobo Blay.

In che cosa consiste il Progetto Amunì? 

Ho incontrato il Progetto Amunì immediatamente prima della pandemia, e ho collaborato alla formazione dei suoi e delle sue performer nell’ambito di performance e drammaturgia musicale.
Si tratta di una compagnia multidisciplinare e multiculturale, composta da oltre una dozzina di performer di dodici paesi e nazionalità̀ differenti tra i 17 e i 28 anni, nata nel 2017 in seno al Bando MigrArti.

Alla base del suo lavoro e della sua pratica, un laboratorio permanente multidisciplinare di ricerca nei linguaggi scenici contemporanei finalizzato alla formazione ai mestieri dello spettacolo, artistici e tecnici, rivolto a minori non accompagnati, richiedenti asilo, rifugiati politici e italiani di seconda generazione. Un Teatro Sociale d’Arte che tende a un percorso di professionalizzazione e auto-determinazione, e che riconosce ai suoi partecipanti una gratificazione anche professionale sin dalla fase laboratoriale.

Quale è stato il percorso che ti ha portato allo spettacolo Oida? 

Avevo in mente da tempo l’idea di una Trilogia Euripidea, di cui Le Baccanti dovevano essere l’innesco. “Oida” (si pronuncia “òida”) in greco antico significa “so perché́ ho visto”. Sulla base di molti studi antropologici, i riti di possessione sono spesso stati il pretesto per la formazione politica e filosofica di gruppi sociali oppressi. «Solo chi vede può̀ sapere» è quello che il prigioniero impossessato dirà al suo carceriere Penteo, mentre viene interrogato.

Il gruppo di cantanti del Progetto Amunì (Naomi Folasade dalla Nigeria, Julia Jedlikowska dalla Polonia, Gianmatteo Marie dalle Isole Mauritius, Alfred Sobo Blay da Ghana/Costa d’Avorio) era il gruppo giusto con cui dire/cantare/poetare l’urlo politico “OIDA”. L’aiuto di Rossella Guarneri, Simona Argentieri, Diana Turdo fra aiuto regia, movimento e organizzazione, è stato come sempre preziosissimo. A Giuseppe Provinzano, che è la testa produttiva e progettuale di Babel Crew a Palermo (la compagnia teatrale che ha ideato in partenza Amunì), ho chiesto la regia, perché́ avevo bisogno di qualcuno che facesse insieme a me un lavoro di pulizia dei simboli e montaggio delle immagini; avrei corso il rischio di mescolare e di rendere poco leggibile ad un pubblico lavorando dall’interno della performance.

Come definiresti la tua figura di artista e come riesci a collegare il linguaggio musicale, teatrale e poetico? 

Bisogna partire da chi sta dietro la figura. Sono nato in UK e sono cresciuto in Sicilia da padre inglese e madre siciliana. Sono cresciuto dunque in un complesso familiare multiculturale e molto inclusivo, che mi ha concesso negli anni di sviluppare una concezione pluridisciplinare e induttiva dell’apprendimento, e quindi della pratica teatrale e musicale. Dopo anni di separazione delle mie due espressioni di lavoro, ho finalmente avuto occasione di fondere le due pratiche nella forma più̀ completa, per me, di un performer musicale per il teatro, considerando però sempre il verso – la poesia insomma – l’origine di tutto: ogni giorno scrivo, e scrivo quasi sempre in versi, ragiono per metafore e associazioni, perché́ la mia testa funziona così e riesco a spiegarmi meglio le cose se le accosto fra loro. La mia ricerca affonda adesso nello studio del Rito teatrale, spaziando dalla sua declinazione più̀ foolish (il giullare, il satiro: insomma il matto-santo) ad una più̀ solenne e sperimentale che trova nella figura del preacher e del sacerdote bacchico una somma delle parti appunto musicali (voce, corpo e produzione elettronica) e attoriali. E finalmente posso dire che mi diverto un sacco!

Il compito d’artista e sua responsabilità̀ morale è insorgere contro le forze alienanti della società̀ contemporanea per spingerlo verso una profonda ricerca della sua vera identità̀? 

Personalmente non so quale sia la responsabilità̀ morale di un artista, posso solo parlare per me e per le realtà̀ con cui lavoro bene: il modo in cui cerchiamo la nostra identità̀ passa per molta emulazione, imitazione, tradimento dei nostri maestri. Spesso i nostri maestri fanno le veci involontarie del Padre e della Madre durante la formazione del nostro linguaggio artistico. Nell’accogliere, elaborare e poi tradire quel linguaggio, nasce la nostra identità̀.
Lo stesso vale per le forze della società̀, credo. Ci nasciamo già̀ dentro, ne assimiliamo le meccaniche attraverso le scuole e le famiglie, arriviamo all’orlo del sentircene sopraffatti e d’un tratto ci troviamo davanti a una scelta: lo voglio o non lo voglio? C’è chi resta a lungo o per sempre davanti a quel burrone, e c’è chi salta. Nel frattempo, c’è chi costruisce ponti: spesso sono artisti, credo.

Il tuo lavoro ha un colore anche molto politico. 

Credo che ogni passo che facciamo, ogni cosa che diciamo, tutto ha un colore politico. Tutto ciò̀ che si astiene dichiaratamente dal politico, è assenza di colore. E sappiamo bene che dove c’è un vuoto politico, si inseriscono le mafie, le demagogie e i fascismi.

Cosa rappresenta il teatro per i ragazzi del Progetto? 

Questa è una domanda alla quale sanno rispondere soltanto loro, e individualmente. Io posso dire cosa rappresentano i ragazzi per il teatro: una sfida politica e artistica importantissima. Con Provinzano ci siamo interrogati spesso su questa sfida. E ci interroghiamo di lavoro in lavoro su come fare perché́ si tratti di Teatro, e non solo di un esperimento sociale. Ma viene anche da pensare: il Teatro stesso nasce come un esperimento sociale. Quindi cosa nasce prima? Cosa è più̀ importante di cosa? È per questo che Oida parte da una mia necessità poetica, ma il suo esito è assolutamente un prodotto del Progetto Amunì intero, tantissima farina del sacco di questo spettacolo è dei ragazzi. Io sono stato l’innesco. 

Cosa rappresenta il teatro per te? 

Lo spazio dove tutte le mie pratiche si condensano perfettamente. Non mi riferisco allo spazio teatrale, ma allo spazio artistico che mi dà̀ la pratica teatrale. Il teatro per me non è mai stato un luogo, ma un fatto: una cosa che succede, per la prima e l’ultima volta ogni volta che succede, insieme agli altri. Un rito, insomma. E Oida è uno dei tanti a cui partecipo e che conduco in questo mio periodo di ricerca e indagine del rito teatrale: cito Secret Sacret insieme ai Teatrialchemici, Charles De Foucauld fratello universale insieme a Francesco Agnello, Petra insieme a Mauro Lamantia, Abraxas insieme a Giuliano Logos. 

Chi è per te Dioniso? 

«Un dio non è soggetto di indagine / è danza», dice il coro di Oida. Uno dei principi della poesia, esattamente come nel rito (e si vorrebbe anche poter dire: come nel teatro) è quello della contiguità̀ delirante, contro l’assorbimento del segno nel suo significato, contro la lingua come informazione, verso una lingua della magia e del gioco e dello splendore. Il rito non deve significare qualcosa: vuole solo portare insieme le persone in un tempo sacro, un tempo dell’ozio, un tempo della produzione dell’essenziale. Dioniso in non è una presenza fisica, ma l’idea dietro la presenza fisica dei danzanti. È la poiesis spontanea del corpo e del canto. Di fatto Dioniso non viene mai nominato in Oida. Di proposito.

E Penteo? 

Il nostro Penteo non è più̀ un sovrano del mito che profana il culto di un dio che esige essere rispettato; ma un uomo di potere, un politico, un pensatore, un giovane ambizioso del futuro prossimo. Vuole snocciolare razionalmente i meccanismi del culto di Dioniso per riprodurli, per usarli per fini elettorali.
I gesti rituali vengono riempiti di informazioni, l’eccesso di informazioni trasforma il rito in lavoro: il lavoro volto alla comunicazione, a far passare un messaggio. Un po’ come usare i mezzi della poesia per creare slogan pubblicitari. Disfare una comunità̀ umana e trasformarla in una community di clienti/merci.