La passione di Ruccello di Maria Francesca Stancapiano

Nato nel 1956, Annibale Ruccello perse la vita in un incidente automobilistico nel 1986, quando aveva soltanto trent’anni. Si era imposto come l’autore, l’attore, il regista e, infine, come il riferimento più significativo di una nuova drammaturgia napoletana portatrice di indirizzi radicalmente innovativi nel contesto dell’affermata tradizione scenica partenopea, quella che Eduardo aveva appena lasciato in eredità, esattamente due anni prima con la sua scomparsa. Annibale Ruccello prende per mano il teatro di Eduardo, quei personaggi dei bassi, i poveri di una Napoli da accarezzare, da odorare, a cui rammendare vecchi calzini e panni stracci. Decide, però, di continuare a “sporcarne il dialetto” ad andare più a fondo, quasi volesse scavare nelle fogne (come fa il suo collega Enzo Moscato per esempio in Scannasurice oppure in Luparella), nei cuori arrabbiati, neri, ma non deboli, di un popolo che ha ancora la forza di urlare, di meravigliarsi, di innamorarsi e di inciampare per troppa passione, quella che contraddistingue la città di Napoli, appunto (almeno per quello che mi riguarda!). Il termine “passione” credo sia proprio quello adatto per definire la drammaturgia di Annibale Ruccello, la sua eredità che a distanza di più di trent’anni continua a pulsare sui palcoscenici e nelle platee dei teatri che permettono di farne da eco. Il 15 aprile scorso (in anteprima stampa) è andato in scena al Teatro della Cometa di Roma Ferdinando, l’ultimo testo scritto dal drammaturgo partenopeo prima dell’incidente. La vocazione mediterranea, che va oltre i limiti della tradizione da un punto di vista lessicale e anche drammaturgico, è stata ben intesa dalla regista Nadia Baldi. Quest’ultima, infatti, ha preso il testo con cautela, con grazi, senza stravolgerlo e riconsegnandolo agli attori, i quali hanno sciolto sul palcoscenico, in due ore e mezzo, le battute di una Napoli dell’Ottocento in decadenza come tutta l’aristocrazia fedele ai Borboni. Tutti sono in decadenza, sebbene cerchino di aggrapparsi ancora a qualche corda e di non lasciarsi andare del tutto. Lo fa Donna Clotilde interpretata in maniera magistrale da Gea Martire, la quale ricorda l’interpretazione di Isa Danieli e, nella mimica facciale, anche quella di Pupella Maggio nei classici intercalari delle donne napoletane che affrontano la vita di petto. L’attrice è fin dal primo quadro padrona della scena con un abito bianco enorme, lunghissimo, che diventa anche coperta per il letto su cui si trova costretta a stare per tutta la durata del Primo Atto. Non sbaglia una parola, non un gesto. La recitazione di Gea Martire è armonica, ritmica, come lo è quella del resto degli attori, i quali dalle prime battute attorniano il grande letto obliquo, posizionato al centro della scena: Chiara Baffi nei panni della cugina di Clotilde, di nero vestita, “‘a zitella”, che scandisce ogni parola accompagnata da una sincronizzata mimica facciale; Fulvio Cauteruccio, il prete peccatore, che porta lo spettatore dentro la perversione più totale di un decadimento umano, in preda alla confusione, al “peccato da continuare a compiere per il gusto del peccato stesso”. Fino poi ad arrivare a Francesco Roccasecca, che si sbottona alla fine dello spettacolo in un dialetto “scomposto”, incomprensibile, a differenza dei due primi atti, e facendo esplodere la bomba della passione che ha ingannato tutti. Ho parlato di una gestica sincronizzata, robotica, che ricorda, per certi versi, la Supermarionetta di Craig: gli attori escono dalla scena, compiendo tutti un gesto tipico delle bambole, quasi a voler togliere l’umanità ai protagonisti dell’opera, come appunto citava lo stesso Craig:

«[…] non dovrebbe più esserci una figura viva atta solo a confonderci, facendo tutt’uno di “quotidiano” e arte; non una figura viva nella quale siano percettibili le debolezze e i tremiti della carne. L’attore deve andarsene, e al suo posto deve intervenire una figura inanimata – possiamo chiamarla la Supermarionetta».

Senza anima scompaiono i personaggi rimettendo a posto le passioni, non i sentimenti. Per poi rivomitare il tutto sul palco con rabbia, delusione, frustrazione, vendetta.
La scenografia a cura di Luigi Ferrigno evidenzia lo sposalizio tra sacro e profano in un “minestrone” di tetro, dove l’eccesso sta di casa e dove si tende a nascondere (?) ciò che è irrecuperabile: pezzi di un bambolotto stesi, come panni, in alto.
Il testo è stato scritto esattamente trentaquattro anni fa. All’epoca avrà scosso la morale della “brava gente” trattando temi di perversione cattolica e non. Oggi il significante permane nella metafora di un Paese ancora corrotto e ancora decadente, come le guglie che bruciano di una Cattedrale, all’interno della quale non ci si può più rifugiare neppure per una misera preghiera di cui non si ricordano tutte le parole.

 

Ferdinando

di Annibale Ruccello
con Gea Martire, Chiara Baffi, Fulvio Cauteruccio, Francesco Roccasecca
regia Nadia Baldi
costumi Carlo Poggioli
scenografia Luigi Ferrigno
consulenza musicale Marco Betta
aiuto regia Rossella Pugliese
organizzazione Sabrina Codato
progetto luci Nadia Baldi
foto in videoproiezione Davide Scognamiglio.

Teatro della Cometa, Roma, fino al 21 aprile 2019.