“La Formula di Grübler” a Rebibbia. Sei appunti su una messinscena in carcere di Carlo Lei

Foto di Centro Studi Enrico Maria Salerno

Premessa

L’intento rieducativo della privazione della libertà è poco meno che lettera morta (nell’ultimo anno il tasso di recidiva è stato superiore al 68%). Le condizioni in cui poi, per la maggior parte dei casi, tale privazione è messa in pratica sono semplicemente spaventose. Eppure, il carcere è assai poco presente nelle vite di chi non ne è coinvolto personalmente o negli affetti prossimi: fortunatamente per il nostro equilibrio interiore operiamo una rimozione. Ma chi vuole conoscere fino in fondo le contraddizioni di questa società deve invece cogliere ogni occasione di avvicinarsi a quegli universi (le galere, le scuole, gli ospedali, i bassi strati dell’amministrazione pubblica) che faticano a fare propria l’evoluzione dei rapporti tra individui e tra singoli e istituzioni e che, se lo fanno, rimangono impigliati in tradizioni, pratiche, architetture anche fisiche che col tempo mostrano sempre più inequivocabile il ghigno agghiacciante dell’assurdo e del disumano. Mentre noi discettiamo dei diversi gradi di libertà personale che possiamo ipotizzare di concederci, come può l’esistenza stessa di un edificio progettato e costruito per tenere rinchiuse persone per le quali bisogni sanitari e personali sono soggetti a trafile tanto arretrate da essere implicitamente inutili, non sembrare, assai prima che violenta o kafkiana, irrealistica, genuinamente distopica?

1. Distinzioni in crisi

C’è una vecchia divisione, se non più teorica, certo di comodo, istintiva per il pubblico: teatro in luogo deputato, in uno spazio teatrale (con sovrapposizione dei significati: teatro/evento su teatro/edificio) e teatro in uno spazio non teatrale, non rispondente né all’architettura tradizionale né alla ritualità dell’evento, alla convenzionalità dell’attraversamento degli spazi per la sua comunità.
Nel seminterrato della chiesa del carcere di Rebibbia c’è una sala da 340 posti, con una buona dotazione tecnica e poltrone più comode di quelle di molti teatri romani. Ma gli attori non possono andare in pizzeria o a bere, una volta ricevuti gli applausi, né tornare stanchi a casa, godendo del silenzio della notte e pregustando una mattinata pigra. E gli spettatori non acquistano il biglietto al botteghino, devono anzi fornire in anticipo fotocopia di un documento d’identità valido, rinunciare a portare con sé in sala non solo il portafoglio e le sigarette, ma anche a farsi un selfie davanti alla locandina, perché le borse vanno consegnate all’entrata, e tutti entrano in sala a mani nude, con un badge al collo. Questo spazio così unico (benché non unico, come proclama a tutti il Leone d’oro ad Armando Punzo) è scisso in due facce coesistenti, che sgusciano da quella divisione di comodo iniziale. Per chi è “fuori” non è teatro, privo com’è di troppe caratteristiche che fanno degli edifici teatrali luoghi di libertà, di godimento, di allegria al solo entrarvi; per chi è “dentro” e forse prima dell’esperienza della compagnia del Teatro Libero di Rebibbia non aveva mai messo piede in un teatro, è invece teatro vero, non solo perché si presenta con quel palco e quella platea riconoscibili persino per loro, ma anche perché quel godimento e quella libertà non potrebbe altrimenti goderla, ora, che lì. La consolle, i costumi, gli elementi scenici devono inoltre significar loro qualcosa di enormemente gratuito (e perciò esplosivo) nell’angustia della quotidianità, dove tutto si allinea con gli obblighi connessi alla condizione di detenuti, o si sperde nel vuoto dell’attesa.

Foto di Centro Studi Enrico Maria Salerno

2. L’isola

L’isola è popolata di soli maschi. I più anziani sono i “maestri”, i giovani le “staffette”. Come siano giunti lì, non è dato saperlo – nemmeno a loro. «Siamo caduti sull’isola». «Siamo inchiodati qui». Abbandonarla via mare non è un’opzione praticabile, così tutte le speranze sono riposte in una formula che, si dice, un tempo era di pubblico dominio e che, mettendo insieme i sei gradi di libertà di un meccanismo dovrebbe, nella lettura metaforica che ne fanno gli isolani, permettere loro di decollare. È la “formula del volo’” o di Grübler, dal nome del suo scopritore. Da tempo è stata smarrita, e solo nel segreto di incontri notturni gli isolani, guidati dal Professore e da due suoi aiutanti, tentano di ricostruirla. Ma invano. E la terra è aspra e petrosa, non dà che lenticchie, più raramente fave, patate, e arido è anche il mare, distesa avara, che elude le reti dei pescatori.

3. Teatro didattico e didascalico

L’unica possibilità per il Teatro di essere didattico davvero, cioè di essere in grado di cambiare radicalmente la vita di qualcuno – oggi – è esserlo per chi lo fa. Il didascalismo della metafora di La Formula di Grübler di Laura Andreini, anima di La Ribalta – Centro Studi Enrico Maria Salerno, che da vent’anni esatti insieme a Fabio Cavalli lavora col teatro a Rebibbia, può far storcere il naso. Allo stesso modo, l’edificante moralismo del finale o i numerosi imprestiti tematici (ritrovare il proprio nome a dispetto di codici altri alienanti, nomignoli o sigle, e gridarlo; il volo come metafora di libertà…), potrebbero infastidire lo spettatore più avveduto. Eppure, a chi è dentro la compagnia, la possibilità che la propria esperienza quotidiana e le proprie speranze per l’avvenire possano prendere una forma nuova, quella del racconto universale, deve significare vederle per una volta strappate dalla morsa sulla propria carne, come si farebbe con un tentacolo di polpo o una sanguisuga tenace. La loro speranza e la loro attesa forse vane sono rese davanti ai loro occhi nella frustrante ricerca del volo, nel tentativo di non rinunciarvi anche se, nonostante il furioso dimenarsi di braccia, non ci si stacca da terra; l’atrocità del caldo estivo che già oggi, in una sala con una pur flebile aria condizionata è faticoso (ma l’estate si tocca il picco dei suicidi in carcere, ci ricorda la Radicale Rita Bernardini prima dell’inizio, che nel 2022 sono stati 84) è per opposto il freddo glaciale che scuote le spalle dei venti naufraghi. Ben venga dunque la didascalia – non è per noi.

4. Fare bene

Il critico, anche lui vive un paradosso. Come l’attore è in bilico tra la lucidità e la perdita del controllo, così questo fruga costantemente alla ricerca di quell’estasi, che può essere ben intellettuale, ma che può avere ricadute e somatizzazioni nella commozione, nell’incapacità di schiodarsi da una poltrona, nel desiderio altrimenti di andarsene via lontano. Un’estasi che non è consenso, però, che può solo venire da un’azione che sappia intaccare la nostra facciata di serenità. Tuttavia, una volta incontrato questo grande dolore della verità, ha il compito di renderlo in ordinata prosa, per indicare che una vena preziosa è stata rintracciata, che lì qualcosa palpita, e chiede di continuare a farlo. Perciò di questo lavoro, che spinge alla commozione e alla sensazione di aver proprio trovato quella vena, le condizioni non si possono, per cominciare, non rintracciare nella qualità della drammaturgia (collaborazione di Francesca Di Giuseppe), un testo a brevi scene adatto per lavorare a due o a tre durante la fase di montaggio, ma che non esclude alcune importanti scene corali, dove gli attori sono gestiti con millimetrica attenzione, dai tempi degli interventi ai momenti “coreografici” che hanno addirittura una propaggine nella ricezione degli applausi, quando la compagnia avanza e retrocede come una risacca. Né la scelta dei costumi (le scene sono i comuni cubi neri, adatti a mimare cassette, barche, scogli…) è da meno, o delle musiche; le luci contengono la prosaicità di uno spazio dalle altezze ridotte e riescono a disegnare ora un campo, ora il largo mare. Ma il punto di maggior valore dell’esperienza è nella resa attoriale. La maggior parte degli interpreti è esordiente e a parte il nervosismo, i tremori, la distribuzione dei ruoli è operata con opportunità e acume, così da selezionare le parti di caratterista (grande successo, come sempre, per loro) e quelle più elastiche per chi è in grado di sostenere un arco rappresentativo più ampio.

Foto di Centro Studi Enrico Maria Salerno

5. Tendere verso

Vi sono modi diversi di lavorare con attori non professionisti, il laboratorio con la sua dinamica è uno di questi e può scegliere legittimamente didi non aprirsi all’esterno, di lasciare all’interno del gruppo ciò che emerge. Che in La Formula di Grübler gli attori sapessero portare la voce, che i movimenti fossero fluidi, che il contenuto e l’atmosfera fossero posseduti da tutti, che sia stato oggetto di dialogo durante la lavorazione, forse anche di ampliamento nel suo versante allusivo è un fatto evidente; così come è evidente che la finalità del percorso, la messinscena, continua per la compagnia del Teatro Libero a essere l’elemento principale che traina il lavoro. Non ci è stata esposta un’apertura di laboratorio, una “classe aperta”, ma un vero e proprio spettacolo teatrale. E come potrebbe, in questo caso, essere altrimenti? Non è difficile immaginare che dietro l’obiettivo di una resa professionale (e con ricadute, in una certa misura, professionalizzanti) deve stare ben piantata, per questi attori nuovi, una grande mole non solo di rivalsa, ma anche di assunzione di senso, di focalizzazione del sé nella prospettiva detentiva ed esistenziale. Contemporaneamente la scelta dello spettacolo contiene quando sia portata, come in questo caso, a compimento con così innegabile qualità, non solo un’esibizione di bellezza ma anche un’esca verso chi guarda, e chi guarda non fatica a coglierla. Per restare nella metafora: la comunità dell’isola a un certo punto va a pesca, tutta insieme, e getta le reti, che nella finzione sono sostituite da teli di plastica leggerissimi, di quelli che si usano per impacchettare gli alberi di limone quando l’inverno è rigido. Galleggiando nel vuoto, sospese dalla pesantezza dell’aria surriscaldata dai respiri e dalla traspirazione queste reti brancolano sul palco, ma arrivano anche alle prime file della platea, che se allungasse un braccio potrebbe toccarle. Ciò che sta in teatro esiste assai più di ciò che non ci sta, perché, come si diceva un tempo, la realtà che esiste di più è quella portata in vita dall’arte – e dal teatro, fatto di corpi umani, più che mai. Come la comunità dell’isola getta le reti, così la comunità del carcere con il suo lavoro, getta qualcosa verso di noi, ci chiama in causa. Sta a noi allungare le braccia.

6. Allungare le braccia

Da quanto mi è stato possibile sapere, ai detenuti non è consentito l’accesso alla Rete. Queste parole, che non saranno dunque per loro, sono per loro.

Per tutte le informazioni, rimandiamo al sito: www.enricomariasalerno.it/arti-a-rebibbia