La “Fervida Pazienza” del Kilowatt Festival di Patrizia Vitrugno

È stata appassionata e viva la Fervida Pazienza che ha dato il titolo alla diciannovesima edizione di Kilowatt Festival. La rassegna, svoltasi nella splendida cornice di Sansepolcro dal 16 al 24 luglio scorso e diretta da Lucia Franchi e Luca Ricci, ha raccontato la resistenza e la speranza di artisti, tecnici, organizzatori, amministrativi, addetti alla comunicazione, volontari e spettatori. Perché “pazientare è resistere e la resistenza è un atto di speranza” si legge nella presentazione di questa edizione. E Kilowatt Festival lo ha fatto raccogliendo intorno a sé la migliore vitalità che il teatro, la danza, il circo e la musica possano offrire costruendo un cartellone che di giorno in giorno ha riavvicinato – seppure con le dovute distanze dettate dalla pandemia – le persone, ricreando una comunità che qui a Sansepolcro è sempre esistita ma che questi tempi difficili ha messo a dura prova. Che è poi la comunità del teatro tutto, troppe volte relegato in un angolo, e non solo in questo ultimo anno e mezzo.

Foto di Luca Del Pia

Padrini del Festival sono stati Spiro Scimone e Francesco Sframeli, il duo artistico siciliano nato negli anni Novanta ma che ha girato il mondo portando i propri spettacoli nei festival europei più prestigiosi, oltre che in Argentina e in Canada. A Sansepolcro hanno rimesso in scena Il Cortile, storico spettacolo Premio Ubu 2004 come miglior testo italiano. La storia è quella di Peppe (Francesco Sframeli), Tano (Spiro Scimone) e Uno (Gianluca Cesale), tre uomini che vivono in una specie di discarica ai confini della società. Tra dialoghi al limite del surreale, la compagnia di un topo, un tozzo di pane verde, si assiste a uno squarcio di vita sospesa in una sorta di Aspettando Godot in salsa siciliana. Un gioco surreale e tragicamente comico in cui i tre protagonisti si rimpallano battute e tristi verità. E se c’è spazio per qualche risata, il riso è spesso amaro perché se un pezzo di pane ammuffito è il pranzo bramato dalle bocche di questi disperati, è anche vero che, come dice Uno: «Io non voglio digerire tutto, io voglio anche vomitare». I tre si aiutano, si punzecchiano, litigano. In una parola vivono perché, in fin dei conti, fare qualcosa «con amore, con piacere o con mestiere», come dice Peppe, è ciò che fa la differenza.
All’opera di Scimone e Sframeli è stato anche dedicato l’incontro pubblico Il teatro è ventre di madre, occasione per esplorare la necessità di un teatro artigianale, che nasce dalla relazione viva tra autore, attore e spettatore. 

Foto di Luca Del Pia

Non abbiate paura. Grand hotel Albania di Francesco Niccolini viene invece portato in scena dall’intenso Luigi D’Elia che si chiede e ci chiede: «Cosa accade se la diga crolla qui? Non domani, ora?». Il testo di Niccolini racconta cosa successe a Brindisi 30 anni fa quando, nel 1991, migliaia di cittadini albanesi sbarcarono nel porto pugliese alla ricerca di una vita nuova. «Un’alluvione di 8.000 persone, una scossa di terremoto sempre più forte». Sono parole che sembrano scritte sui quotidiani di oggi. Sono passati 30 anni ma il concetto di accoglienza è ancora tutto da costruire. Di certo lo costruirono i cittadini di Brindisi che di fronte a «uno Stato vecchio, lento, asmatico, e alla Protezione che di civile ha solo il nome». aprirono le porte delle loro case: «Due miserie che si incontrano perché tra poveri ci si capisce» dice D’Elia perché «è anche così che si salva una città». Per gli albanesi quel puntino della Puglia, povero e strozzato dalla delinquenza, era l’America. Ma se non ci fosse stata la gente comune, oggi racconteremmo un’altra storia. Le parole che D’Elia ci consegna sono pesanti, illuminano però un pezzo del nostro passato che non va dimenticato e che, di sicuro, non è stato adeguatamente valorizzato. Per chi l’ha vissuto sono parole che emozionano, che riportano a un’epoca altra in cui la speranza che non sarebbe mai più successo era viva. Oggi sappiamo com’è andata perché, come conclude D’Elia, «siamo un po’ più cattivi ma sempre qui».

Foto di Luca Del Pia

Pastorale del danzatore e coreografo Daniele Ninarello andato in scena nel Chiostro di Santa Chiara è, invece, un’esperienza ipnotica. I quattro danzatori – Vera Borghini, Zoé Bernbéu, Lorenzo Covello e Francesca Dibiase – sono meccanismi perfetti di un ingranaggio che compone, passo dopo passo, movenza dopo movenza, un rituale coreografico. Quattro assoli che però si uniscono a creare una danza vorticosa. Non si toccano mai tra di loro ma uno non esisterebbe senza l’altro. Un collettivo formato da quattro individualità che si incastrano alla perfezione e che simboleggia la necessità che l’uomo ha dell’altro.

Foto di Luca Del Pia

Altra danza seducente è quella di Ginevra Panzetti ed Enrico Ticconi – vincitori nel 2019 del Premio Danza&Danza come coreografi emergenti e nominati “Talento dell’anno” dalla rivista tedesca Tanz – Zeitschrift für Ballet Tanz und Performance – che con ARA! ARA! (organizzato in collaborazione con Anghiari Dance Hub) affascina la platea con il potere simbolico della bandiera. Attingendo alla tradizione folcloristica dello sbandieramento i due “danz’autori”, dalla simbiosi ritmica, creano una coreografia che incanta.

Una piccola sorpresa per uno spettatore o, meglio, giocatore, alla volta è di certo Shakespeare showdown della compagnia Enchiridion (ovvero Matteo Sintucci, Francesca Montanino, Mauro Parrinello): un videogioco basato su Romeo e Giulietta e l’immaginario shakespeariano. L’idea, nata quasi 10 anni fa, ha trovato il giusto approdo durante il lockdown quando il bando Residenze Digitali promosso da Kilowatt Festival e Armunia ha permesso di recuperarlo. Grazie a una grafica anni Ottanta, i versi del Bardo e le voci, tra le altre, di Alice Giroldini, Tindaro Granata, Celeste Gugliandolo, Manuela Mandracchia e Antonella Questa, Shakespeare showdown rappresenta un modo originale di avvicinarsi al teatro, divertente e fuori dall’ordinario.

Foto di Elsa Nocentini

Meno convincente invece Arturo di Laura Nardinocchi e Niccolò Matcovich. E se l’idea è interessante, ovvero raccontare “la morte senza tabù, trasformando il dolore in atto creativo”, la resa scenica soffre un po’ a causa di una recitazione a volte monocorde. I due autori/registi raccontano il dolore della perdita dei propri padri condividendo le loro storie con il pubblico che è invitato a partecipare e assieme al quale sarà realizzato un vero e proprio puzzle di ricordi.

Foto di Luca Del Pia

Arriva dalla Francia, infine, Marion Siéfert con il suo Le grand sommeil. Autrice, regista e performer, la Siéfert è uno dei nomi di punta del nuovo teatro francese e questo suo secondo spettacolo getta luce su alcune zone d’ombra dell’infanzia. Attraverso un lavoro imponente fatto sul corpo, Marion si trasforma in una undicenne restituendone tutte le contraddizioni, le paure, i sogni e le fantasie. A volte sospeso tra l’osceno e il mostruoso, questo racconto in francese con soprattitoli in italiano possiede una forza dirompente che, però, ci si chiede: avrebbe avuto la stessa potenza se l’avessimo ascoltata in italiano?

Il Kilowatt Festival dimostra anche con questa edizione la sua vocazione contemporanea e internazionale. Da Sansepolcro ci si affaccia sul grande teatro di oggi ma soprattutto su che teatro farà. E da qui, sicuramente, la vista è promettente.