“Interno Camera”: l’elogio della lentezza in un mondo troppo veloce. Intervista di Letizia Bernazza alla Compagnia Giglio/Prosperi

Foto di Giovanni Chiarot

Dal 9 all’11 maggio 2024 al Teatro Tor Bella Monaca di Roma, la Compagnia Giglio/Prosperi presenta Interno Camera (drammaturgia di Paola Giglio, con Paola Giglio e Matteo Prosperi, regia e ideazione scenica di Marcella Favilla con il supporto di ARTEFICI Residenze Creative FVG/Artisti Associati Gorizia selezione progetto SCRITTURE di Lucia Calamaro, 2019).
Con l’occasione, abbiamo raggiunto Paola Giglio e la regista Marcella Favilla, le quali hanno risposto alle nostre domande.

Come nasce Interno Camera?

Il testo nasce nel 2019 nell’ambito di un laboratorio condotto da Lucia Calamaro, durante il quale bisognava portare le proprie proposte di scene, con Lucia che ci stimolava attraverso delle domande. Nell’arco di una settimana mi capitava e ricapitava di portare proposte che non erano convincenti, finché a un certo punto, durante una delle mie riflessioni con lei, sono crollata e ho ammesso di attraversare un periodo di grande fatica personale, di essere molto stanca e di aver perso il punto di quello che stavo facendo sul piano teatrale, e forse oltre al punto stavo perdendo anche la motivazione. Lucia mi suggerì allora di partire da lì, dalla scrittura di un monologo di un personaggio che entra in scena e dice «Sono stanca». Quello diventò il primo monologo di Marta, nella prima scena. Il giorno successivo portai questo monologo e Lucia mi disse «Be’, hai fatto bingo!». Il testo si è quindi sviluppato proseguendo proprio attorno a questo primo monologo del personaggio femminile.

Il tema centrale di Interno Camera è la depressione che colpisce soprattutto i giovani (ma non solo), vittime della precarietà lavorativa e della famigerata velocità che ci obbliga a non fermarci mai, come se rallentare volesse dire – o vuol dire – “essere tagliati fuori” da un sistema sociale consumistico e tecnologico che non concede più di misurare e di impiegare il tempo in maniera naturale. C’è una enorme letteratura a proposito. Cito soltanto, per esemplificare il tema, il volume dello scrittore canadese Carl Honoré Elogio della lentezza. Rallentare per vivere meglio che scrive: «Quando ci si dimentica di rallentare, quando si accelerano cose che non vanno accelerate, c’è sempre un prezzo da pagare». Quali sono state le linee guida e le fonti a cui avete fatto riferimento per imbastire la drammaturgia del vostro lavoro?

Foto di Giovanni Chiarot

Sicuramente è stata fondamentale sia la presenza fisica di Lucia Calamaro sia la sua drammaturgia, soprattutto L’origine del mondo. È stato molto importante anche un saggio sul camminare. Dopo aver scritto il monologo di Marta ho cominciato a delineare il personaggio di Pietro, compagno di Marta, un filosofo che non riesce a sbloccarsi. Per tracciare il suo modo di parlare, di pensare, sono andata a cercarmi un saggio filosofico e ho trovato Andare a piedi. Filosofia del camminare di Frédéric Gros, che parla di come il camminare ci riconnetta non solo con l’ambiente esterno, quindi con la natura e con ciò che va oltre noi, ma anche con l’interno, con noi stessi e con quel punto interiore che Pietro, compagno di Marta, va tanto cercando. È stato poi fondamentale, rispetto al tema della depressione, un saggio di Cecilia Di Agostino, Marzia Fabi e Maria Sneider, Depressione. Quando non è solo tristezza. Me lo ha passato Matteo Prosperi, che non è soltanto il mio compagno di palco e di lavoro, ma anche il mio compagno nella vita, e quando io sono in piena fase creativa ama passarmi i libri sottobanco, me li lascia in giro per casa in modo che io li trovi e li legga! Il libro viene citato da Marta nella terza scena, è fisicamente presente con me sul palco. Un’altra cosa molto importante, oltre alla ricerca di una letteratura sul tema, è stata quella di vivere alcune esperienze. Durante la scrittura di Interno Camera io e Matteo abbiamo fatto il nostro primo cammino, esperienza che per noi è poi diventata abituale, perché abbiamo constatato personalmente che l’azione del camminare ci riconnette con un senso più profondo e riconcilia anche con la vita. Nei miei processi di scrittura parto da me stessa, ma anche da ciò che conosco e vedo intorno a me. Il personaggio di Pietro s’ispira infatti a una persona reale, che conosco e che veramente si è bloccata nella scrittura della sua tesi di dottorato. A proposito di questo, amo citare Shonda Rhimes che dice: «tutti i personaggi sono veri, tutte le storie sono vere, tranne quelle che sono inventate». Oltre alla letteratura, quindi, a me piace proprio partire dall’osservazione della natura, sia interna a me, sia esterna, e quindi dall’osservazione del mondo intorno. Un’altra cosa che faccio è prendere mie esperienze personali e trasformarle, mascherarle, vedere se si applicano anche ad altre persone, per passare dal personale all’universale. L’ho fatto anche con il mio primo testo, Finalmente sola, monologo che faccio da ormai dieci anni.

Marcella Favilla, in che modo la drammaturgia si è “sposata” con la tua regia?

Regia e testo in questo caso sono stati un connubio, non vorrei dire perfetto per non peccare di presunzione, ma uno nasce nell’altro, ovvero né la regia è al servizio del testo né il testo è al servizio della regia. Ovviamente, la regia si crea attorno al testo, dal momento che esso è preesistente, ma quasi va a modificarlo per la scena. Mi viene in mente la scelta di cambiarne quasi la struttura: ho sentito il bisogno di strutturare il testo e di spostarne alcune parti per rendere il tutto più omogeneo, per seguire un filo che era soltanto nella mia testa. Essendo io, Paola e Matteo anche amici fuori dal teatro e dalla professione, posso dire che ciascuno sul palco mette il suo o si cerca nel proprio partner qualcosa che già si conosce. Questo lo hanno fatto sia Paola verso Matteo sia Matteo verso Paola, ma soprattutto l’ho fatto anche io conoscendo loro, per tirare fuori alcune parti di sé stessi o a volte anche scambiarle; ho attribuito delle cose che sono tipicamente di Paola a Matteo e viceversa. In realtà c’è anche da dire che i personaggi erano stati molto ben delineati dall’autrice, essendo stati fin da subito molto chiari nella sua testa: bastava quindi solo leggere attraverso le righe per trovarli.

Foto di Giovanni Chiarot

E il vostro lavoro da attori? Puoi raccontarci, Paola, le fasi salienti che vi hanno condotto a definire la fisionomia dei personaggi e a come portarli sulla scena?

Con Marcella, che per la seconda volta ha curato la regia di un mio testo, il lavoro è stato guidato prima a tavolino, nel più classico dei modi. La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di mettere una distanza tra noi attori, Paola e Matteo, e i personaggi Marta e Pietro. C’è stata prima una fase nel 2019, quando abbiamo presentato una prima versione in forma di studio dello spettacolo e abbiamo avuto la possibilità, sempre nell’ambito del laboratorio di Lucia Calamaro, di testare la prima parte del testo a Carrozzerie n.o.t. C’è stata poi la lunga pausa del Covid, dopo la quale abbiamo avuto la possibilità di fare una residenza immersiva di due settimane in cui eravamo noi tre, attori e regista, grazie ad Artisti Associati Gorizia. Avevamo già metabolizzato alcune parti del lavoro sui personaggi e abbiamo potuto continuare in maniera immersiva. In questo spettacolo i due personaggi sono sempre in evoluzione, non è mai fisso ciò che facciamo: Marcella ci ha sempre chiesto di continuare a mantenerli vivi e di non fissarci su un’intenzione, su un’intonazione, su un movimento, ovvero ci ha esortato a trovare la nostra libertà in scena come personaggi vivi, tutte le sere. Ogni replica è diversa, in ciascuna replica ci troviamo ad affrontare delle difficoltà diverse o si va ad approfondire una parte della storia e del personaggio, una sua peculiarità. Ci sono repliche più faticose, altre meno faticose, ma il punto del lavoro attoriale di questo spettacolo è uno: non possiamo fare finta. Non possiamo andare in scena se non siamo perfettamente dentro, se siamo anche soltanto un minimo distratti. Interno Camera ci costringe a uno sforzo di attenzione e di ascolto veramente massimo. È su quello che si basa lo spettacolo, sull’ascolto, sull’attenzione e sulla capacità di sostenerci l’uno con l’altra in scena, sia come attori che come personaggi.