Ginius, viaggio dell’anima in quattro stazioni Intervista a Max Mazzotta di Alessandra Bernocco

Foto di Guglielmo Verrienti - Ag Cubo

Unica data, almeno per ora, quindi chi lo ama si affretti. Il 17 gennaio, un lunedì, consueto giorno di riposo dei teatranti, Max Mazzotta sarà in scena alla Sala Umberto di Roma con un monologo di cui è autore, regista e interprete presentato in prima nazionale nell’ambito del Campania Teatro Festival la scorsa estate. Si intitola Vite di Ginius e arriva dopo il successo, anche personale, di Freaks Out, il recente film diretto da Gabriele Mainetti, dove Max interpreta il partigiano gobbo, un po’ brigante un po’ idealista. 

Chi è Ginius?

Ginius è un uomo qualunque, non un eroe ma un essere umano che racchiude vizi e virtù di tutti gli uomini. Nasce in un tempo futuro ma ha vissuto altre vite e le ricorda.
Lo spettacolo, infatti, più che la storia di un personaggio, racconta il viaggio di un’anima che ricorda. 

In cosa consiste questo viaggio?

È un viaggio ultraterreno di purificazione dalla materia nel quale l’anima diventa terra, acqua, aria, spazio, tempo e infine vibrazione, cioè qualcosa di totalmente privo di materia. Con la vibrazione l’esistenza si è liberata della sua parte materica.

Nelle note d’autore leggo che l’anima si ritrova sulla barca di Caronte. Nessun riferimento alla Commedia? 

I riferimenti ci sono e sono precisi – Caronte, una barca, un fiume – e servono per intenderci su alcuni dati basilari, ma qui il percorso è a ritroso. Dante ha compiuto il suo viaggio da vivo mentre Ginius è morto e la dimensione del racconto è legata a visioni, intuizioni, fantasia. Mi sono divertito a inventare. 

Quale è l’idea di fondo, il filo conduttore? 

L’idea che la vita sia una copia dell’esistenza e che l’esistenza non cessi con la morte del corpo.

Foto di Guglielmo Verrienti – Ag Cubo

Sei credente? 

Io credo che l’uomo non possa non essere credente. Il bisogno di credere che l’esistenza non si esaurisca con la vita terrena è profondamente umano. Poi si può credere a cose diverse. Ogni popolo ha la sua religione o le sue religioni, il suo Dio o i suoi Dei. Gesù e i grandi saggi orientali conoscevano molto bene l’essere umano. La loro introspezione verso la conoscenza lascia anche oggi con il fiato sospeso. Io non credo che l’evoluzione sia una freccia che si muove in modo rettilineo da 0 a 100, ma un discorso circolare che contiene al suo interno tante evoluzioni. Insomma, l’homo sapiens non era per forza meno intelligente di Leonardo.

Torniamo all’anima di Ginius e alle sue reincarnazioni. 

Io introduco il discorso sulla reincarnazione anche in senso metaforico, nel senso che l’anima non solo si reincarna in corpi diversi, ma noi stessi, nella nostra vita, ci rispecchiamo nel nostro prossimo. L’altro siamo noi. Un concetto molto semplice che ci dimentichiamo troppo spesso. Anche per questo motivo ho voluto puntare sul ricordo.

E allora cosa succede all’anima di Ginius mentre ricorda? 

Il ricordo è sempre la fase più dolorosa perché ogni vita ricordata è come se venisse vissuta in prima persona e allo stesso tempo osservata come fosse altro da sé.

E quali sono questi altri da sé? 

Ho scelto quattro vite esemplari nell’arco di mille anni, dal 1800 al 2800. Vite che segnano le fasi di un percorso.

Senza troppo spoilerare, ci puoi anticipare qualcosa di più? Di chi sono i corpi abitati nel tempo dall’anima di Ginius? 

C’è una donna vecchia nella Calabria del 1800 che ricorda che da bambina giocava con il suo giovane amichetto caduto in un buco del terreno e poi morto, c’è un venditore di scarpe innamorato di una ragazzina nella Roma degli anni Sessanta, ci sono due fratelli tipo Caino e Abele in un prossimo 2100, e poi nel 2800 c’è un militare che …

Basta così, evitiamo di dare risposte prima che il pubblico si faccia domande. Dimmi solo qual è il filo che lega i quattro passaggi attraverso l’anima di Ginius. 

C’è un’escalation del senso di colpa e ci sono strati diversi di comprensione. Lo spettacolo intende porre domande quando invece noi vogliamo soprattutto risposte.

Foto di Guglielmo Verrienti – Ag Cubo

Quindi è una sfida? 

È il teatro. Un campanellino che risuona e prova a risvegliarti dal torpore. Il teatro regala domande che poi vanno a generare altre domande e avanti così, finché non riusciamo a comprendere qualcosa di noi che non sapevamo, o conoscevamo in modo diverso.

Dal punto di vista del linguaggio e della scrittura come hai lavorato? 

Il testo è musicale, legato ai suoni e a una moltitudine di linguaggi che devono raccontare mondi diversi, anche lontani nel tempo.  Ho scelto il verso per dare voce all’anima e al mondo onirico, canti in quattro versi a rima alternata ma sciolti, non legati a una metrica rigida. La parte del ricordo invece è in prosa perché racconta le storie terrene attinte dalla cronaca, ma anch’esse con una loro musicalità.

Però l’ultimo involucro dell’anima abita nel 2800: come te la sei cavata? 

Mi sono divertito a creare un linguaggio nuovo ma comprensibile. Con qualche neologismo e qualche imprecazione inventata di sana pianta, camuffando toni e sonorità.

Sarai proprio solo in scena?

Ci sono delle installazioni video per dare una mano al pubblico. Oggi l’immagine è più forte della parola e può aiutare la comprensione.

Ci sarà musica? 

Tanta. Canzoni originali e anche musica composta appositamente da me. Non mi sono fatto mancare niente.

Per tutte le informazioni:
salaumberto.com/