Stefano Geraci: Bustric è un singolare collettivo. In realtà ne sono in dieci. In scena è spesso un solista, ma contemporaneamente è anche un’orchestra. Se si volesse guardare il teatro dal punto di vista di una mappa, nelle scene del teatro in Italia in questi ultimi cinquant’ anni c’è un villaggio – in questa geografia – che si chiama Bustric. Si tratta di uno dei casi, rari e importanti, in cui un artista di teatro si crea da sé un suo contesto. Esiste il paese Bustric, il villaggio Bustric; la segnaletica – è riportata anche su Google Maps, no? – è lì da molto tempo. Si potrebbe dire: «passo per Bustric e poi vado a Firenze». Lui si sposta molto e con lui il villaggio…
Sergio Bini: Intanto, Bustric nasce da un nome che non vuole dire niente, è un personaggio inventato. Non è come un personaggio della Commedia dell’Arte: per esempio, quando dici Pantalone intendi “il vecchio”, con Brighella intendi “il servitore”, Arlecchino è “lo zanni”. Bustric è un personaggio astratto, che racchiude quello che è la mia vita, molto vicino a me, pur non identificandomi: Io distinguo molto, anche se è una parte di me. Quando è nato si truccava, aveva il naso finto, aveva una sua voce: lo avevo caratterizzato come un pagliaccio, poi dopo ho capito che quelle sovrastrutture mi limitavano. Mi ricordo che partii per la Spagna e decisi per la prima volta di non portare il naso finto. Chiaramente il naso finto mi aiutava a caratterizzarne la voce, un po’ alla topo Gigio. Poi col tempo ho iniziato a trasformare questo clown e la sua è diventata una voce normale, con intenzioni un po’ più d’attore. C’è un’intervista bellissima in cui Totò parla con il principe Antonio De Curtis. L’uno dà all’altro del cialtrone; Totò risponde: «Lui mi sfrutta, io lavoro per lui. Lui fa tanto il figo… Se non ci fossi io che lavoro…». C’era una divisione molto forte fra l’attore e il personaggio. Invece io ora tendo a eliminare questa divisione, senza che ci sia una competizione con me stesso. Quando sono a cena con degli amici posso scherzare, giocare; di battute me ne vengono tante e sono spesso anche abbastanza ironico, ma, per esempio, non faccio mai giochi di prestigio, tutto ciò che considero lavoro lo divido: è lavoro.
Considero gli spettacoli per bambini un lavoro di grande responsabilità e passione, perché penso che un bambino lo puoi veramente aiutare. In Sud America, per esempio, ho lavorato in delle grosse scuole popolari costruite in maniera modulare: mi ricordo quando entrai in una di queste la prima volta e mi trovai osservato dai volti di migliaia di bambini con i vestiti strappati. Facevo lo spettacolo in un italiano un po’ brasilianizzato; volevo dare loro l’idea di una possibilità di uscita dalla loro condizione. Come lo è stato il teatro per me, in fondo.
Il lavoro vero cominciò con un gruppo di clown, fondato da me ed altre quattro persone, che si chiamava Melquiades (1). In una fotografia che ho portato nella valigia ero con Guido Faglia, facevo la ballerina Teresa Portoposkaj. Con questo spettacolo noi giravamo nelle piazze e chiedevamo i soldi a cappello. Fu un’esperienza fondamentale per me, bellissima e preziosa. Quando decidemmo di chiudere il gruppo io non potevo rifarne un altro perché ne avrei fatto solo una copia. All’epoca si formavano molti gruppi. Ricordo gli Els Comediants (2), catalani: Cruciani mi fece notare che un gruppo come quello, che recuperava le tradizioni popolari e che viveva dividendo tutto come una famiglia, poteva nascere solo in reazione all’oppressione franchista, rendendo eroica la conservazione della cultura popolare come identità di un popolo che si rifiuta di essere omologato. Adesso tutto questo non c’è più. Noi, per esempio, giravamo con la roulotte. Una volta a Lagonegro arrivammo di notte e ci parcheggiamo in piazza: era completamente vuota, bellissima. Poi alle 5 del mattino ci svegliammo tutti di soprassalto, guardammo fuori dalla finestra della roulotte e ci trovammo circondati dalle bancarelle di un mercato. La polizia ci fermava spesso, eravamo sospetti, ma non quella volta. Quando l’esperienza del gruppo finì ho proseguito da solo ed ho scoperto, per esempio, che i soldi che riuscivo a raccogliere con il cappello erano gli stessi, per cui riuscivo a guadagnare quattro volte di più; ma la mia scelta non era economica, semplicemente seguivo un nuovo corso degli eventi.
Ho continuato ad imparare e studiare, mettendo insieme le varie tecniche per tradurle attraverso questo personaggio, Bustric, che col tempo è sempre più diventato simile a me. Attraverso il gioco ho sempre cercato me stesso. Attraverso tutti questi incontri, elementi, tecniche… Attraverso i miei spettacoli, io crescevo e diventavo sicuro, trasformando le intuizioni in repertorio, libero di fare spettacolo e di incontrare il pubblico. Ancora oggi, a volte, prima di iniziare uno spettacolo mi domando «ma che cosa ci faccio qui?». Come se mi perdessi per un attimo, ma questo perdermi è un principio: da lì scatta qualcosa. Ho sempre, per anni, pensato che lo spettacolo che nasce fosse un fatto magico. Per chi mi conosce sa bene di cosa parlo: qualcosa che non esiste prima, e che poi esiste solo nel momento in cui si rappresenta, nell’incontro di elementi, di vita, di sentimenti, di profumi, di calore, di gioco, di risate e di qualcosa che esiste in quel momento e in quelle circostanze lì. In cui è importante la forma del pubblico, dove si siede, come si siede, come guarda, se io vedo o non vedo il pubblico, che tipo di pubblico è, se il pubblico ci sta, o se non ci sta. La mia scuola, lavorando in strada, è stata durissima: devi convincere la gente a fermarsi e a vedere uno spettacolo. Ricordo che i primi spettacoli che facevo da solo li provavo vicino a casa mia, in campagna a Firenze, dove c’era un fontanile. Davo spettacolo per cinque, sei donne: tre lavavano, due venivano a vedere; poi se lo raccontavano e se ne aggiungevano altre. Non chiedevo i soldi, perché non ci guadagnavo niente, era per provare. Non era importante ciò che io facessi, quale storia, ma il “come”.
Inoltre, c’è bisogno di una artigianalità. Io costruisco le cose che faccio, che uso – e a volte me le invento – o meglio, non proprio: è un po’ come per un musicista che suona, non inventa le note. In Napoleone magico imperatore (3), ad esempio, facevo un numero in cui facevo apparire delle monete, che in realtà erano da centro lire: un mio caro amico che non c’è più me le fece dorare e me ne regalò tante, adesso le ho quasi finite. Volevo fare uno spettacolo su Napoleone. Dicevo: «Beh gli assomiglio… stesso profilo, stesso sguardo intelligente, siamo italiani tutti e due». La storia cominciava con Napoleone che, tornando dall’Egitto, aveva incontrato la gloria, e da lì la sua fortuna. Poi avevo fatto il cavallo: una corda con un filo di ferro. La gloria la rappresentavo con due accendini vicini al viso, e dicevo: «Io sono la gloria, io ti bacerò dopodiché…. Fortuna! Diventerai magico imperatore». A questo punto partiva lo spettacolo, prendevo un tappeto volante e da dietro la piramide messa in scena volavo fino a Parigi. Raccontavo tutto attraverso l’uso di apparizioni, sparizioni, oggetti, cose trovate col tempo, col lavoro d’immaginazione, di costruzione. Per esempio, la campagna di Russia la facevo prendendo dei sacchetti di plastica trasparente bianca con all’interno una lampada al neon, una torcia elettrica; il rumore della plastica sembrava proprio il suono dei passi sulla neve e camminando con questi sacchetti illuminati era come se la neve mi si attaccasse ai piedi, mentre raccontavo della Russia e dello strazio di tutti quei morti. Mettevo sempre insieme una parte visiva e una parte di racconto. Il costume, invece, lo scelsi perché per caso ero andato al museo Guggenheim di Venezia: lì c’era un quadro, mi pare di Max Ernst (4) con tutte le piume di un galletto. Decisi allora di farmi un costume tutto di piume rosse, molto bello, con un mantello di cinque metri di velluto rosso.
Nel 1982 feci uno spettacolo che si intitolava Si pensi a Shakespeare (5), in cui raccontavo Shakespeare alla mia maniera, facendo un potpourri di tutti i pezzettini di Shakespeare che mi piacevano. Avevo visto un vecchio disegno, di quelli ottocenteschi, dove c’era il gioco dei bussolotti, che oggi è il gioco tipico del prestigiatore. La parola escamote, da cui proviene escamoteur, escamotage, è proprio la pallina rossa che si usa nel gioco dei bussolotti. Ce l’avete presente? Tre palline, tre barattoli, ma non trovi mai la pallina che hai scelto, è sempre da un’altra parte. Questo gioco può essere sviluppato, può crescere… In Tunisia avevo visto questo gioco in cui una pallina aveva la caricatura di un personaggio politico dell’epoca. Tutto ciò mi fece venire in mente l’idea di usare le palline come personaggi. Quando entri nella logica di costruire uno spettacolo, qualsiasi cosa accade intorno a te la traduci, diventa un’idea a cui ne consegue un’altra ancora. Mi ricordo che telefonai a Fabrizio Cruciani e gli chiesi: «Fabrizio, ma che colore è Iago?» e Fabrizio, senza neanche rifletterci: «Sergio, è evidente, verde!». Effettivamente l’immagine che Fabrizio aveva di Iago veniva da Che cosa sono le nuvole? di Pasolini, dove Totò fa il personaggio di Iago ed è verde. Dopodiché, tre personaggi, tre bussolotti: bianca come la neve Desdemona, nero Otello, verde Iago… E iniziava la musica dell’Otello di Verdi, quando nel finale viene detto: «Ehi tu come sei pallida e bianca». Quindi il gioco di magia diventava racconto. Lo spettacolo debuttò al Teatro Franco Parenti, quando c’era ancora Franco e si chiamava ancora Pier Lombardo (6).
Muovendomi come mi sono mosso, ancora oggi continuo a fare cose diversissime. Mi piace fare le ombre con le mani; non ne faccio tante, però le trovo belline, pulite. Soprattutto sono belle perché sono una cosa antica, hanno un elemento poetico: si fanno con niente. Per esempio, le uso in Pinocchio (7) in cui dico: «Accidenti, ma Pinocchio non aveva paura di niente, nemmeno delle ombre, e si sa che la notte tutte le cose diventano scure, si prendono le ombre per cose e per cose le ombre». È una citazione da ll deserto dei Tartari, ma nessuno se ne accorge. Con le ombre faccio tutti i personaggi, e poi a un certo punto con il cappellino di Pinocchio ne costruisco l’ombra con il naso che si allunga. Poi esco fuori scena, prendo un ramo e metto Pinocchio ciondoloni, impiccato. Alla fine, faccio il gioco del pallone: la gente non si aspetta che un uomo di settant’anni entri in un pallone, per cui quando annuncio che sto per entrarci la gente dice: «Non è possibile!». Come lo faccio? Entro dentro il pallone, accendo la torcia elettrica e dico «Questa è la balena, la balena bianca, grande come un pallone, un pallone grande così». Poi inizio infilando dentro la testa e, una volta entrato con tutto il corpo, prendo una pila e una marionetta piccola, illumino la marionetta e sul pallone vedo riflessa la marionetta e il mio profilo. E così finisce lo spettacolo. Anche qui, il gioco del pallone che fanno in tanti, trasformato così, diventa un racconto.
Le cose non esistono, nel senso che non esistono a prescindere. Il teatro – ma non lo dico io, lo sanno tutti – è l’immagine che il pubblico crea nella mente rispetto a ciò che accade sulla scena. Quindi io devo fare in modo di dare un codice, farvi credere in qualcosa e poi giocare con la vostra immaginazione. La musica è come un personaggio, è fondamentale. Intanto ti aiuta a dare il ritmo, l’allegria, ti dà la spinta: è fondamentale per uno che lavora da solo così… Pierino e il lupo di Prokof’ev (8) lo faccio da tanti anni. Lì è la musica a richiamare ogni personaggio. L’uccellino lo fa il flauto. Oppure dico: «Adesso arriva l’anatra che avanza dondolando il grosso culo», comincia la musica dell’anatra, io tiro su il bavero della giacca, metto le mani in tasca e cammino sulla musica e mentre faccio questo il culo che si gonfia. Ed è fantastico perché, poi prendo due spilli e al cambio di musica lo faccio scoppiare e vado avanti col racconto. Ho preso i tubicini delle bombolette ad aria compressa, che si usano per gonfiare le ruote delle biciclette quando si bucano. Poi continuo: «l’anatra starnazzò e stupidamente si gettò nell’acqua» – si getta nel lago. Il lago è una catinella d’acqua che prendo e la metto lì, inciampo e faccio cascare un po’ d’acqua e quindi bagno pure un po’ i musicisti dell’orchestra. Poi, «l’anatra starnazzò nello stagno», entro nell’acqua e schizzo, mi bagno i piedi, mi levo le scarpe, mi levo le calze, le strizzo, esce fuori l’acqua e le metto ad asciugare al leggìo. E questo è il gioco, i vari piani che si intrecciano. Devi avere il racconto, la musica, e poi – anche se non sempre ci riesco – io chiedo sempre che i musicisti siano eleganti. Più il rito, l’ambiente è importante, più è divertente togliersi i calzini e metterli ad asciugare. È sempre il décalage quello che conta: è Chaplin.
Un mese e mezzo fa ero a Milano, ho fatto Pierino e il lupo con l’Orchestra Verdi: una produzione iniziata durante la pandemia. Mi sono trovato lì con tutta l’orchestra e il direttore è venuto a dirmi: «Sergio è stato fantastico!». E ti rendi conto che se tu ci sei per come sei, alla fine il pubblico c’è. E di come la tua forza diventa ancora più forte, quando la gente ci mette la propria forza, la propria attenzione. Amo le persone, mi perdo nell’osservare, nell’incontro, anche breve. Mi piace. Ho sempre pensato che lo spettacolo sia un salto nel vuoto con il paracadute di ciò che conosco, ma pur sempre vuoto. Quel gesto magico che magicamente si rinnova ogni volta.
Note
1) Si fa riferimento alla compagnia Melquiades, co-fondata da Guido Faglia – Falispa, Manuel Cristaldi -Philip, Valerio Festi -Albert, e Sergio Bini -Bustric; molti dei loro spettacoli furono realizzati tra il 1974 e il 1977. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla Nota 6 della tappa Contagio.
2) Els Comediants (anche Comediants): Compagnia spagnola di teatro di strada, fondata nel 1971 a Barcellona, diretta da Joan Font Pujol, regista principale e membro fondatore della troupe. Pujol ha studiato all’Institut del Teatre (Istituto Teatrale) di Barcellona e alla scuola di mimo Jacques Lecoq di Parigi. È stato introdotto al teatro di figura dal Bread and Puppet Theatre del Vermont (https://wepa.unima.org/en/els-comediants/).
3) Dramma buffo in un atto scritto e interpretato da Sergio Bini. Il debutto dello spettacolo avvenne nel 1995 presso il Teatro di Rifredi di Firenze, con le scene di Luca Ruzza.
4) Il riferimento potrebbe essere al quadro La vestizione della sposa, 1940, olio su tela, 129,6 × 96,3 cm. Peggy Guggenheim Collection, Venezia.
5) In collaborazione con Manuel Cristaldi, co-prodotto dal Teatro Regionale di Toscana e dal Salone Pier Lombardo di Milano, lo spettacolo valse la segnalazione per il Premio Ubu come “nuovo attore” e come “interpretazione particolarmente singolare”.
6) Nel 1972 Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah insieme ad altri fondano il Salone Pier Lombardo. Nel 1989, con la scomparsa di Franco Parenti, Andrée Ruth Shammah assume interamente la direzione del teatro che, in onore del grande attore, prende il nome di Teatro Franco Parenti.
7) Testo e messa in scena di Bustric; musiche di F. Carpi, R.Secchi e altri. Lo spettacolo ha debuttato a Milano nel gennaio 2007 insieme all’Orchestra Verdi diretta da Marcello Bufalini, per poi essere tradotto in diversi spettacoli successivi.
8) Favola sinfonica composta da Sergej Sergeevič Prokof’ev nel 1937, è stata trasposta in azione mimica da Sergio Bini e portata in tournée per la prima volta nel 2001.