“Dance is not for us” del libanese Omar Rajeh di Paolo Ruffini

Foto di Giuseppe Follacchio

Apertura della stagione del Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita | Spellbound con un progetto molto atteso, sia per la eco che il performer Omar Rajeh è capace di suscitare intorno alla sua figura anche in Italia e sia per la narrazione che accompagna – sin dalla conferenza stampa di presentazione del programma di Vertigine (la stagione) – questo lavoro così intriso di sbilanciamenti personali e dal forte carattere politico, come di politica può trattare un artista che sceglie di non cadere nel tranello della retorica. Ma di destrutturarne abilmente le insidie del linguaggio, di capovolgerne l’ovvia apparenza, di riportare al “vero” lo stridore dei sentimenti mostrando, di fatto, attraverso il linguaggio, l’aspetto ulteriore di una personale condizione significativa, quale gesto politico. Andato in scena al Teatro Palladium di Roma, Dance is not for us tocca nel vivo le questioni oggi nodali sulla possibilità di essere e di scegliere, sul potere come sistema implicito alla cultura (popolare) che definisce il linguaggio (per l’appunto) e la sua differenza, anche di classe, che percuote di nuovo la diacronia storica tra dominanti e dominati, riportando a una sfera di “insurrezione” emozionale e sociale il discorso pubblico sulla libertà, come ne parla Édouard Louis, quando dice: «gli individui che ci circondano hanno spesso varie possibilità in loro, varie persone all’interno di sé, e così quello che dicono e quello che fanno dipende in gran parte dai discorsi che circolano nello spazio pubblico». (1)

Foto di Giuseppe Follacchio

Lo spazio scenico è occupato da un tavolino e una sedia posti di lato e all’occorrenza funzionali quali meta-scrivania che riproduce sullo fondo in grande schermo le riflessioni e il racconto che il performer va pian piano imbastendo, “incidendo” così quelle parole come missiva allo spettatore da subito chiamato in causa, da subito destinatario di quella intimità, informazioni sulla sua esistenza, sul suo corpo, i suoi desideri, ricordi che si innestano in una sintesi spazio-temporale poetica ed evocativa. A terra, disseminati piccoli vasi con piantine di basilico ordiscono, rammemorano un altro tempo e quei dolori che lo definiscono questo tempo, in un ispessimento percettivo dove corpo e parole (e suoni) fanno da cornice ai luoghi, alle persone care, alle sofferenze che sono memoria ben oltre la propria, personale; è Storia di un paese e di conflitti mai sopiti, ferite mai rimarginate. Il traghettamento ordito da Rajeh tra passato e presente, tra radici e attualità, tra discorso intimo e sociale introiettato e “cartolina” di un’idea di Libano mediata, passa, si costruisce, attraverso il corpo, lo stare del suo corpo in quell’autobiografismo per nulla patetico, anzi, felicemente (e malinconicamente) eversivo.

Foto di Giuseppe Follacchio

È un meccanismo di perfetta (e misurata) orchestrazione di suoni, azzardi di danze che hanno lo scatto nervoso fatto di piccole e reiterate ellissi gestuali per poi ampliarsi in armoniosi passaggi che nella dialettica tra assoli e costruzione e decostruzione spaziale esaltano l’aspetto più profondo di un racconto personale; e ancora, Dance is not for us si nutre di parti raccontate e agìte da quelle parole, porzioni di testo che si riproducono in quello schermo quasi a sottolineare i diversi livelli di informazione dando così legittimità a una struttura drammaturgica orizzontale, a una tessitura sovrapposta di elementi visivi-letterari-musicali-espressivi dove la danza scende obbligatoriamente a patti con il pantheon di riferimenti che il coreografo performer mette a disposizione. Per certi versi ci ricorda quella emissione di un afflato compassionevole ch’è documentale e intimo, che abbiamo amato in Gli anni di Marco D’Agostin e in Tre studi per una crocifissione di Danio Manfredini (per citare alcune connessioni), e dove Beirut quanto Parigi (o quanto Roma in quel momento) pur disegnando espressività del potere del corpo a loro modo potenzialmente antitetiche, ci riportano alla radice significante del corpo esposto e ci riguardano perché quel corpo è capace di edificare una libertà di segni (libertà dai codici della danza e dal potere di chi ancora ha presunzione di definirla, libertà dal potere economico, da quello religioso, ognuno dei quali è emblema di una fragilità di pensiero), e infine riguarda Rajeh quando fa collidere più tradizioni di sguardi con Dance is not for us, cuspide percettiva che ambisce a un altrove di ispirazioni, ad un altrove di rappacificazioni del corpo, del suo e il suo con la moltitudine dei corpi, una rappacificazione col dolore nell’auspicata riconciliazione politica. Lui è superbo nel tenere assieme tutti i fili che questo lavoro offre, e commuove.

Nota
1) Édouard Louis / Ken Loach, Dialogo sull’arte e la politica, La nave di Teseo, Milano, 2022, p. 62.

Foto di Giuseppe Follacchio

Dance is not for us

concept, scenografie e coreografie Omar Rajeh
assistente coreografo e co-writer Mia Habis
drammaturgia Peggy Olislaegers
musiche Joss Turnbull & Charbel Haber
light design e direzione tecnica Christian François
amministrazione Jean-Louis Pagnon
si ringrazia CN D à Lyon, Sima Performing Arts, AlserkalAvenue-Dubai, Amadeus-Beirut
con il supporto di DRAC Auvergne Rhône-Alpes.

Teatro Palladium, Roma, 12 gennaio 2024.