Crocevia del presente di Paolo Ruffini

Al Festival Oriente Occidente di Rovereto alcune espressioni della danza

 

Dal 1981 la città di Rovereto è un inevitabile appuntamento con le interferenze della danza, presentando lavori da tutto il mondo segnati da una certa misura di introspezione nello specifico del linguaggio e allo stesso tempo dalle distanze, dai rivolgimenti, dagli approdi più euristici o performativi che la danza sta attraversando, almeno da un decennio. Nel ricchissimo cartellone spettacoli e momenti di approfondimento si sono avvicendati caratterizzando l’anima di un festival sempre più spinto verso motivazioni di ricerca, verso pensieri meno scontati dei diversi approcci della conoscenza attraverso il gesto e le impaginazioni coreografiche. Quest’anno, poi, anche in virtù di un ormai abituale sostegno da parte del festival ai processi di avvicinamento all’opera, i giovani artisti residenti hanno contribuito non poco al quadro d’insieme. Abbiamo ancora una fotografia molto variegata che restituisce al tema di questa edizione, “La nuova via della seta”, l’idea dell’arte come vero e profondo strumento di analisi del tempo presente; questo tempo in progressione continua, sbilanciato sulla gravità dell’esistenza e dove le “ingerenze” dei molti portati culturali riescono a raccontare una attualità in pericolo, su di un baratro del non ritorno, un confine oltrepassato delle certezze di ieri che riguardano ogni emisfero, a Oriente come a Occidente, appunto. Da qui, le riletture da angolazioni postcoloniali della classicità, il balletto denaturato, le tensioni sociali che entrano in palcoscenico trasformandolo in spazio urbano, la forza del nouveau cirque e il teatro che parla col corpo. Sono alcuni dei presupposti, traiettorie, opzioni creative. Come la compagnia del francese Vincent Warin, capace di governare uno spettacolo en plain air mettendo assieme orizzonti apparentemente lontani come la gestualità corporea, il live concert e freestyle con bicicletta. Il pubblico assiepato ai bordi di un’area pressappoco circolare che diventa il centro dell’azione dei tre è uno spazio liminale dei rispettecotoivi approcci, l’arena del racconto di Ecotone dove i piani “narrativi” cercano una loro verbalizzazione fisica condivisa. Con Warin Simon Demouveaux alla chitarra e Adèle Alaguette “acrobata posturale” lo spettacolo lascia spazio a ulteriori connessioni fantastiche che ogni singolo apporto riesce a trasporre verso un terreno che non è più soltanto quello proprio e non è ancora qualcos’altro, una terra di mezzo poetica e della meraviglia e per questo l’insieme è piacevolmente fresco. Warin si impenna in bici anche appeso a corde che lo fanno volteggiare in aria come una lama tagliente, il chitarrista cuce con mano hard una tessitura musicale d’impatto (senza mai eccedere verso un suono che tradisca l’allure dell’insieme), mentre alla Alaguette il compito di tenere le fila con piccoli apporti acrobatici. Gli spettatori giovani e i più piccoli entusiasti della meraviglia che Ecotone riesce a trasmettere.

                                    Ecotrone

Ancora uno spettacolo “da piazza” con il duo italiano Francesco Capuano & Nicola Picardi/Körper che arriva dalla selezione di “danze urbane” del progetto Anticorpi XL, rete di operatori nazionali della danza. Forse, a partire da me, si dovrebbe ricominciare a capire cosa intendiamo quando parliamo di danza in uno spazio pubblico; qual è il carattere segnico e la sua decriptazione semantica e cosa intendiamo quando parliamo di “danza urbana”, “danza in uno spazio urbano” oppure, infine, lo “spettacolo di danza da piazza”. Quali sono i confini tra un’azione in palcoscenico e la stessa in uno all’aperto, come si trasforma il linguaggio, cosa perde e cosa acquista, sono gli stessi “comportamenti” e tensioni o ne subentrano altri che vanno a connotare una differenza di attitudini e di riverberi, finanche coreografici? Sussiste uno stesso portato drammaturgico per uno spettacolo all’aperto e uno in sala? Definisce un’estetica la danza urbana? Tutte questioni che negli anni passati e in diversi appuntamenti dedicati sono stati posti come termini linguistici e al contempo definitivi ma, evidentemente, nella liquidità prima e gassosità poi di questo tempo restio a trattenere alcuna memoria, anche quella recente, abbiamo perso tutto, e siamo di nuovo a un grado zero dello sguardo. In questo senso, lo spettacolo Glitch Project che il duo ha presentato nell’atrio del MART si situa proprio in questa “scanalatura” interpretativa che, al di là dello spettacolo stesso, per certi versi godibile nella sua puntigliosa ricerca dello stile, non ci “dica” che tipo di esperienza stiamo guardando e i rimandi annunciati nel programma di sala certo non aiutano.

Glitch Project

I due bravi nel viluppo fisico che operano, sentimentali nel tratto formale fermano un immaginario ch’è tutto derivativo dalla classica; parlo di immaginario, ma anche le posture quelle sono, il tempo relazionale tra un fraseggio e l’altro e anche negli accenti più dinamici la finta irruenza è smussata da un vero carattere accademico o televisivo. Tre quadri che nelle intenzioni affronterebbero tre diversi momenti esperienziali e emotivi ma non ne restituiscono il racconto, tantomeno in uno “spazio urbano”. Irene Russolillo è una degli artisti associati al Festival, un coacervo di potenzialità con una certa dose di (sana) follia che la connota come una delle giovani interpreti più interessanti del panorama italiano (Il concetto di giovane interprete o autore bisognerebbe ormai ridefinirlo. L’impossibilità di evoluzione da una condizione “anagrafica” è definitivamente fuori luogo. Si è eternamente giovani fino al trapasso nell’altra condizione, quella dell’essere immediatamente subito dopo consumati, vecchi. Qui il termine giovane vuole soprattutto dare dignità a produzioni e scommesse del Festival che vanno oltre il solo esercizio su se stessi, come in questo caso e in quello di Davide Valrosso e di Salvo Lombardo, i quali hanno presentato progetti strutturati e complessi). Porta a Oriente e Occidente This Is Your Skin, un lavoro articolato e di non facile immediatezza (finalmente) dove la scrittura fisica delle tre interpreti si definisce anche nel “colore” di una partitura sonora (originale e appositamente scritta da Spartaco Cortesi), universo di timbri e levigatezze elettroniche che cooptano la loro voce con grande efficacia.

This Is Your Skin

Lo spazio scenico è attraversato a terra o in traiettorie con i corpi-cumuli di forme fisiche che si cercano per assoli d’insieme, tendono verso i microfoni posizionati su tre lati del palcoscenico del Teatro alla Cartiera come per appuntamenti a un rilancio cantato delle “esclamazioni” verbali di una scrittura parallela al quella del corpo, una scrittura fonetica ma prima di tutto emozionale. Sono corpi prossimali al concetto, alla prassi, allo spazio interiore desideroso di un’eversione esteriore. Ecco un primo abbozzo di quella che potremmo definire un’eccezione, perché a differenza di tanti altri giovani interpreti italiani che sperimentano soli danzati ma hanno poi difficoltà a concepire lo spettacolo nelle sue stratificazioni di senso e di significato, portandosi dietro quella sola idea di lavoro su se stessi, la prova della Russolillo verte a una coreografia ragionata, ancora da mettere a punto magari, ma sicuramente degna di nota e rigorosamente interpretata. Gli spagnoli La Veronal capitanati da Marcos Morau sono di certo uno dei gruppi meno convenzionali della scena internazionale. Al Festival hanno presentato lo spettacolo Pasionaria, un paradossale e terrifico futuro che ci attende appena poco più in là. Un futuro ultratecnologico, meccanico e disumanizzato, dove persino il rapporto della maternità e o della paternità è mediata e Bach diventa l’ossessione dell’identico, della ripetizione che non è rituale ma portatore di azioni svuotate di qualsivoglia desiderio.

  Pasionaria

Uno spettacolo (seppure un po’ lunghetto) di grande padronanza e concezione, una overture alla libertà in minore, non dichiarata, una necessità che tutto ciò non si compia mai. Lo spazio scenico del Teatro Zandonai riproduce una stanza illuminata in flou e da trasparenze azzurrine e bianche: luogo di transito di un ospedale? Un hotel metafisico? Un oltre mondo che ancora non conosciamo? Una grande scala che ricorda Il viale del tramonto cinematografico con alle spalle una grande finestra da dove scorgiamo il passaggio della luna che si avvicina minacciosamente, un cielo stellato, come un cartoon tutto appare in una sorta di finzione plastica con pose immortalate da una “pittura” di luce e tagli seicenteschi seppure definita anche da ragioni coreografiche da controcanto urbano. I corpi hanno il compito di intrecciare le narrazioni, di scivolare, tentare fughe da quell’ipnotismo ossessivo che reitera gesti e accenti quasi a sottolineare la necessità di svelare più aspetti di un vuoto, un buco dell’anima, come indicato dall’autore, una «completa mancanza di passione». Bellissimo.

Festival Oriente Occidente, Rovereto (TN), dal 7 agosto all’8 settembre 2018.