“C’è ancora domani”: tutelare le donne e le loro conquiste di Monia Manzo

Foto di Claudio Iannone

C’è ancora domani non è soltanto un successo di pubblico ma anche un’idea vincente rispetto a tematiche molto diffuse ma raramente approfondite.
La regia di Paola Cortellesi, attrice affermata nel panorama cinematografico italiano, è la conferma del suo spessore umano e artistico, perché per i più attenti era già evidente come la sua comicità – oltre a farci divertire – ci conducesse, grazie ai personaggi di fantasia, verso immagini femminili e sociali drammatiche: dalla donna oggetto (Magica Trippi) alla venditrice/strozzina di prestiti per risolvere situazioni comuni che si trasformano in schiavitù.
L’attrice ci riporta con il suo film in un Italia degli anni Quaranta a Roma. Le donne durante tutto il conflitto avevano sostituito gli uomini in molti dei ruoli e professioni, dimostrando di saper portare avanti un Paese senza la presenza maschile.
Il merito della loro indipendenza e capacità di gestire più situazioni della vita, oltretutto complicatissima a causa della scarsa presenza di cibo e di beni di prima necessità, viene come cancellato con un colpo di spugna dal ritorno dei sopravvissuti.
Delia è sposata con Ivano uno dei tanti uomini reduci della Seconda Guerra Mondiale che sicuramente hanno sofferto, ma non possono risolversi come esseri umani soltanto vantando una partecipazione “obbligatoria” a un conflitto per poi essere spietati, maschilisti: in poche parole alti rappresentanti del patriarcato. Quello che accade al personaggio interpretato dal popolare Valerio Mastandrea, perfetto con il suo volto e le sue espressioni da uomo senza coscienza, vittima di retaggi culturali di bassa lega, per cui la donna è alla stregua di una bestia da soma, quindi da addestrare e punire.

Foto di Claudio Iannone

È inutile negarlo. Paola Cortellesi ci ha ricordato tanti avvenimenti domestici orribili, taciuti, nascosti, ma noti a tutti, che venivano e vengono ancora ignorati per una morale bieca, appartenente a un concetto di famiglia clanica, patriarcale, in cui c’è poco posto per le donne.
Il film è ambientato nel popolare quartiere di Testaccio, che sembra essere la più naturale delle scenografie, come se il tempo si fosse fermato lì: non si sarebbe potuta scegliere una location più suggestiva.
La fotografia e le scene non hanno elementi propri del Neorealismo italiano, come alcuni hanno affermato, infatti nonostante l’uso del bianco e nero, esse possono essere associate al cinema contemporaneo, soprattutto per una presenza moderna delle inquadrature, i primi piani e l’intensità della luce, molto più forte rispetto a quella dosata e limitata dei film neorealisti degli anni Quaranta.
Interessante la destrutturazione delle scene in cui la povera donna, dopo avere lavorato incessantemente e messo assieme il pranzo e la cena, viene picchiata dal marito per i più futili e disparati motivi.
L’azione delle violenze domestiche da parte di Ivano viene rappresentata attraverso scene danzate, dove l’aggressività viene sostituita dal gioco, come ad indicare una sorta di rituale che si ripete.

Foto di Claudio Iannone

Di questi momenti difficilissimi per Delia, sono testimoni i figli, soprattutto la figlia, che è delusa da una immobilità della madre, tanto da spronarla a fuggire: azione probabile perché Delia è corteggiata dal suo primo amore (Vinicio Marchioni) un simpatico meccanico costretto ad emigrare al Nord e che vorrebbe portare la donna con sé.
Tutto sembra evolversi verso una catarsi attraverso la fuga e Delia potrà lasciarsi tutto il dolore alle spalle…ma non è in realtà la vera motivazione quella di scappare via che fa maledire a Delia la morte dell’odioso suocero avvenuta in un fatidico giorno! Abbiamo un inaspettato colpo di scena, infatti nella borsetta con cui Delia fugge la mattina non ci sono altro che i documenti per partecipare alle prime votazioni delle donne in Italia. Il primo febbraio del 1945 il decreto legislativo n. 23 estendeva alle donne il diritto di voto, che avrebbero esercitato per la prima volta nelle amministrative della primavera del 1946 e poi, in massa, in occasione delle elezioni politiche del 2 giugno del 1946.
La protagonista aveva già dimostrato, in parte, di avere le idee chiare su ciò che non è morale, su ciò che va combattuto: il rapporto con la figlia è uno dei nodi fondamentali della storia. Attraverso Marcella, la donna riesce a ribellarsi, in parte, ai soprusi subiti.
Il suo intuito e la sua estrema attenzione le permettono di comprendere la possessività e la gelosia del futuro genero, sentimenti che non hanno nulla in comune con quello nobile dell’amore, che Delia sogna per una figlia, unica speranza di riscatto rispetto a una vita ingrata.
Paola Cortellesi chiude con una scena particolarmente suggestiva. L’intenzione è quella di voler dichiarare l’assoluta verità per cui senza i diritti e le giuste leggi nessuna libertà può essere realizzabile.
Commovente la scena in cui tutte le donne si esprimono con le bocche serrate e con una mimica di grande impatto: è la loro forza a vincere, seppure le loro bocche siano state zittite da una società maschilista per molto tempo.
Del film diretto da Paola Cortellesi va dato un plauso a un’idea sulla memoria e sul rapporto con un presente, che non deve mai dimenticare di tutelare le donne e le loro conquiste.
Come in un orribile scherzo del destino, la tematica dell’opera della regista appare sempre più attuale, dopo il ritrovamento di Giulia Cecchettin, barbaramente assassinata dall’ex fidanzato.
Paola Cortellesi, in questi giorni, con un accorato appello, si è rivolta alla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e alla Segretaria del Pd Elly Schlein, affinché ci sia unità a prescindere da qualsiasi colore politico.

Foto di Claudio Iannone