ATTRICI > “Ah come mi piace questa qui che non recita!”. Incontro con Valentina Picello di Laura Palmieri

Valentina Picello. Foto di Laila Pozzo

Il secondo incontro della rubrica Attrici, a cura di Laura Palmieri, è dedicato a Valentina Picello.

Cosa significa essere una attrice? Ce lo raccontano alcune tra le maggiori interpreti del nostro teatro, di cui ricorderemo negli anni – o già nel presente – lo stile, il rigore, la potenza, la personalità.

Un incontro vis-à-vis per tracciare percorsi, d’arte e di vita, per scoprire segreti e aspirazioni di uno dei mestieri più antichi e più belli del mondo.

Con Valentina Picello ci siamo incontrate in un caffè romano durante le repliche al Teatro Biblioteca Quarticciolo dello spettacolo Madri (recensione al link “Madri”), un piccolo gioiello da non perdere ovunque riusciate ad intercettarlo. Un testo scritto dal giovane drammaturgo Diego Pleuteri e diretto dall’altrettanto giovane Alice Sinigaglia, che Valentina Picello porta in scena insieme al talentuosissimo ventiseienne Vito Vicino.

Una madre ed un figlio che, nonostante abitino un palcoscenico, appaiono a noi spettatori più reali del reale. Un testo e uno spettacolo che sembrano tagliati addosso ad un’attrice come Valentina Picello che, con la sua recitazione sempre così verosimile e naturale, riesce ad abbattere i confini tra finzione e realtà.

E infatti in questa intervista, oltre a ripercorrere le tappe fondamentali della sua carriera teatrale, dagli inizi con Luca Ronconi, al lungo sodalizio con Arturo Cirillo, fino all’incontro con Claudio Tolcachir, soffermandoci anche su collaborazioni più brevi ma altrettanto fondative, abbiamo parlato molto, inevitabilmente, anche di vita.

Valentina Picello e Vito Vicino in “Madri” di Diego Pleuteri, regia di Alice Sinigaglia. Foto di Francesco Capitani

Valentina, partiamo proprio dall’inizio. Tu sei nata a Bari quarantacinque anni fa, ma   le tue vere radici sono al Nord. Lo raccontiamo questo passaggio?

Ovviamente, è una storia d’amore. Il mio papà viveva già al nord, era sarto, tutta una famiglia di sarti. Un suo grande amico pugliese lo invita a passare le vacanze a Bari e gli organizza un appuntamento al buio con la sorella di quella che, invece, poi sarebbe diventata mia madre. Per un anno e mezzo rimango a Bari con mia mamma per stare vicino alla nonna che era molto malata, e quando la nonna muore io e mia madre raggiungiamo mio padre al nord. Sono cresciuta nel Monferrato praticamente, fino ai 19 anni.

Esattamente a Casale Monferrato, la città dell’Eternit…

Per me era la città di Roberto Bolle! Vicino c’era Vignale, dove si svolgeva Vignale Danza, il festival che io frequentavo sin da piccola e dove ho visto Lindsay Kemp, la Savignano, Bolle, le mie prime cose. Ero un’appassionata di danza, ma ero anche tanto magrina e mi sentivo diversa, sia caratterialmente che fisicamente dalla ragazzina canonica. Per un po’ ho sofferto di anoressia. Però non sono stata bullizzata per questo, sono stata fortunata perché il liceo che ho frequentato era un liceo illuminato, che mi ha spinto a iscrivermi ad un corso di teatro, dandomi anche una borsa di studio per questo, e quindi diciamo che il teatro dai quindici anni in poi mi ha proprio fatto sentire riconosciuta, accettata.

Valentina Picello con Luca Ronconi durante le prove di “Il panico” di Rafael Spregelburd. Sullo sfondo Manuela Mandracchia e Sandra Toffolatti. Foto di Luigi La Selva

Dunque, il teatro inizialmente è stato un po’ una cura.  Poi però è diventato naturalmente la tua strada, il tuo percorso di formazione e di vita. Ti iscrivi alla Scuola del Piccolo Teatro a Milano, dove ti diplomi nel 2002 e subito lavori con Luca Ronconi.

Il primo spettacolo che ho fatto con la sua regia ero ancora un’allieva. Proprio quando io entrai alla Scuola, nel 1999, lui divenne Direttore del Piccolo e aprì la stagione con il Progetto Sogno. Allo Strehler c’era La vita è sogno di Calderón e al Teatro Studio c’era Il sogno di Strindberg e la mia classe, prima ancora di iniziare la Scuola, venne divisa in due gruppi, che parteciparono entrambi al progetto. Fu un battesimo incredibile, perché io ancora prima di iniziare la Scuola ero con Branciaroli a sinistra e Popolizio a destra. Poi ho continuato, perché Ronconi ha continuato a chiamarmi fino a quando non mi sono diplomata.

Hai lavorato con lui in Lolita, Infinities, Phoenix. Poi c’è stato un periodo di interruzione e Ronconi ti ha richiamato più in là per Il panico di Rafael Spregelburd che fece nel 2013 e poi, sempre in quell’anno, per Pornografia.
Cos’è che ti manca di lui?

Beh, lui con me riusciva ad essere empatico rispetto al mio carattere. Non ci siamo mai raccontati molto, però io credo che lui abbia capito fin da subito che venivo da una famiglia umile, che non poteva sostenermi economicamente, anche perché si è sempre dovuta occupare di mia sorella. Io ne ho sofferto un pochino di anoressia, ma mia sorella è sempre stata malata. L’anoressia, la bulimia, hanno sempre fatto parte della sua vita, ed è stata molto bullizzata per questo. Però non è stata mai invidiosa, ha sempre fatto un grande tifo per me.
Io credo che Ronconi sia riuscito a vedere in me una persona che reagiva positivamente a quelle difficoltà per le quali uno, invece, si può ritrarre dal mondo. Attraverso il lavoro di regista – diceva sempre – io mi astraggo dalla realtà, perché la realtà fa schifo.
Con lui credo di avere avuto anche un po’ il coraggio, la spudoratezza, di non imitarlo. Ecco, forse è questo. Io non sono mai riuscita, credo, a fare quello che lui mi chiedeva, però la mia controproposta sincera gli piaceva. A me manca questo di lui.

Valentina Picello insieme a Paolo Pierobon e a Franca Penone in “Pornografia” di Witold Gombrowicz, regia di Luca Ronconi. Foto di Luigi La Selva

Il sodalizio più lungo, dopo Ronconi, è stato quello con Arturo Cirillo, con cui hai lavorato dal 2015 al 2023. Sono tanti però i registi che hai incontrato e anche molto diversi tra loro, da Renzo Martinelli a Roberto Rustioni, da Federico Tiezzi a Emma Dante, e più recentemente Leonardo Lidi e Claudio Tolcachir.
Ma c’è stato un incontro in particolare che mi interessa ricordare, quello con Romeo Castellucci, quando eri proprio all’inizio del tuo percorso. Parliamo del Giulio Cesare, uno degli spettacoli più iconici della storia della Socìetas Raffaello Sanzio e del teatro sul finire degli anni Novanta. Come è andata?

Io ero al Piccolo, stavo ancora facendo la Scuola. Avevo visto Genesi, me lo ricorderò sempre, è successo più di vent’anni fa ma io ero impazzita! Per me che venivo da una famiglia, diciamo cattolica, fu molto interessante vedere questa sorta di Bibbia del teatro contemporaneo. Quando l’assistente di Romeo mi disse che voleva farmi una proposta di lavoro, proprio non potevo crederci! Io ero molto magra all’epoca e Bruto e Cassio erano interpretati da due donne anoressiche. Si trattava di sostituire la ragazza anoressica, morta di anoressia, che aveva interpretato Bruto nello spettacolo, che era già in tournée da tre anni. Dopo il primo provino Romeo mi diede la possibilità di scegliere se fare o no lo spettacolo, dandomi da leggere uno scritto che parlava del teatro della crudeltà, parlava di Artaud e dell’anoressia. Leggendolo ho scoperto parole che non avevo mai sentito utilizzare, per esempio, per mia sorella. Ho trovato queste parole così alte, così vere, così profonde, che ho detto di sì.
Questo non l’ho raccontato mai quasi a nessuno, perché nessuno mi chiede mai di quello spettacolo. E con il Giulio Cesare poi siamo andati anche in America, avevo ventun anni, il primo aereo che prendevo, non capivo più niente …

Valentina Picello in “Anna Cappelli” di Annibale Ruccello, regia di Claudio Tolcachir. Foto di Alfredo Toriello

Arriviamo ad un incontro più recente, quello con Claudio Tolcachir, che ti ha diretto in due spettacoli, il suo Edificio 3 e Anna Cappelli (recensione al link “Valentina Picello: un’Anna Cappelli dei miracoli”) di Annibale Ruccello. Tu hai definito i suoi attori e i suoi spettacoli “veri oltre il reale”. Un incontro predestinato?

Io penso che l’Argentina di Tolcachir si sia gemellata con le mie colline del Monferrato. D’altra parte, anche io facevo tanto teatro in casa, come lui, e questo ti porta chiaramente a un rapporto così tanto di vicinanza col pubblico che non è che ti puoi mettere a fare virtuosismi, devi parlare. E proprio per questo io mi sono trovata bene con lui, e poi perché anche lui come gli altri registi con cui ho lavorato – io sono sempre stata fortunata – sono anche dei grandi attori.
Tolcachir scrive, dirige e interpreta e, come Arturo Cirillo, ha acchiappato sia la mia natura di attrice sia la mia natura di persona che non dimentica le sue origini. E le mie origini sono delle origini semplici, e il teatro fatto in casa è quello dove non ci si deve preoccupare di parlarsi addosso perché nella vita lo fai, di ripetere le cose…
In Anna Cappelli c’è questo modo di parlare che assomiglia al modo in cui noi pensiamo, cioè ripetendo, accartocciandoci. Tutto questo lavoro in parte mi fa piacere che sembri improvvisato, ma lui è un grande regista. Pur non parlando la mia lingua, capisce dalla mia postura o dal mio sguardo se c’è qualcosa che non va. E allora mi ferma e mi dice, in spagnolo ovviamente “senti, non so cosa dici mentre vai al tavolo, però perché ci vai a testa bassa? Cosa c’è che ti dà fastidio? Preferisci alzare lo sguardo? Preferisci dirlo avanti? Vuoi usare una parola del tuo dialetto perché ti risuona come sinonimo, ti risuona di più?”.
E poi, ci sono tutti i miei morti, in questo spettacolo.
Quando Tolcachir mi ha detto “il protagonista secondo me è il padre, il rapporto col padre”, è successo che durante le prove mio padre si è aggravato e quando poi ho dovuto debuttare il papà è mancato. Questo spettacolo io lo faccio con l’anima del mio papà accanto.

Un altro incontro di cui vorrei che mi raccontassi qualcosa è quello con Vitaliano Trevisan.
Proprio ultimamente hai portato in scena insieme a Carlo Cecchi e Fausto Cabra La notte, un progetto voluto fortemente da Gaia Silvestrini e da Carnezzeria, che è la casa di produzione che ti sta accompagnando anche negli ultimi tuoi spettacoli con la regia di Tolcachir.

Ho incontrato Vitaliano Trevisan nel 2003, appena finita la tournée con Romeo Castellucci.
Cercavano un ruolo piccolissimo, sempre per una ragazza molto magra, per Primo amore, il film tratto dal romanzo Il cacciatore di anoressiche di Marco Mariolini. Lì conosco Matteo Garrone, con cui siamo ancora amici, viene sempre a vedere i miei spettacoli e gli piace molto questa mia recitazione, come dici tu, naturalistica, che piaceva molto anche a Vitaliano … “ah come mi piace questa qui che non recita!”.
Sicché mi chiede di fare un suo testo, Good Friday Night, un testo che non è neanche pubblicato e che si ispira a una storia vera accaduta in America, un padre che aiuta la figlia a suicidarsi. L’ho fatto con Graziano Piazza, che fa mio padre, in un festival alla Rotonda della Besana a Milano.
Poi Vitaliano mi dà in mano un altro suo testo, 4 stanze con bagno, un dialogo fra due scrittori, e mi dice “se un giorno troverai la persona giusta con cui farlo, mi piacerebbe che tu lo facessi”.
Dopo la morte di Vitaliano, per una strana forma di rispetto, lo tengo lì. Poi invece mi sono detta no, prima che arrivi qualche avvoltoio, lo devo fare. Lo voglio fare con Gabriele Portoghese e lo farò con Gabriele Portoghese, prodotto dal Teatro Franco Parenti.

Sicuramente c’è un grande lavoro di scambio tra te e il regista che ti dirige, ma hai anche un tuo metodo nella costruzione di un personaggio?

Una volta si diceva che le attrici non vorrebbero mai essere tagliate, ma a me invece piace riadattare, quindi tagliare, andando all’essenziale, cercando anche molto sempre la poesia insieme alla sintesi.
Da piccola volevo fare la pittrice, come mio zio, e tutto quello che è arte figurativa mi dà le giuste vibrazioni per arrivare ad improvvisare su delle cose che possono essere dei quadri o delle sensazioni che quei quadri mi danno o che mi arrivano dalla biografia degli artisti. E quindi faccio una ricerca, faccio un pochettino un lavoro registico, rispetto a quelle che sono le mie preferenze, attitudini…
Per esempio, mi piacerebbe portare a teatro la storia, il personaggio di Leonor Fini, come anche Leonora Carrington, i suoi romanzi dove lei parla con gli animali.

Valentina Picello e Arturo Cirillo in “La scuola delle mogli” di Molière, regia di Arturo Cirillo. Foto di Max Valle

Abbiamo parlato di alcune tue interpretazioni tragiche, personaggi dolenti, ma nella tua carriera ce ne sono moltissimi anche divertenti. Soprattutto quelli che hai portato in scena con Arturo Cirillo, dalla Rossana del Cyrano, alla Lizzy di Orgoglio e pregiudizio (recensione al link “Orgoglio e Pregiudizio”), alla Agnese de La scuola delle mogli
Sicuramente l’ironia è sempre presente nella tua recitazione, anche quando reciti un personaggio tragico.

L’ironia, la sdrammatizzazione e l’autoironia sono il mio salvavita. E quindi me li porto sempre appresso. E poi l’ironia non è la comicità. È la capacità di saper guardare anche le cose drammatiche con distacco. Credo che tutti i personaggi umani, e io faccio personaggi sempre molto umani, ce l’abbiano. Sicuramente con Arturo Cirillo eravamo fratelli di sangue in questa cosa, e proprio questo alla fine ci ha allontanato, questo sostituire il nostro mondo teatrale, la nostra intesa, alla vita reale.
Per il teatro, per le lunghe tournée con Arturo io ho trascurato mio padre proprio quando lui aveva più bisogno di me. Questo non è un gossip, ma penso che le persone che ci hanno conosciuto si chiedano come mai non lavoriamo più insieme.

Valentina Picello in “Cyrano” di Edmond Rostand, adattamento e regia di Arturo Cirillo. Foto di Tommaso Le Pera

Hai un modello di attrice, del passato o del presente, che è una fonte di ispirazione per te?

Ce ne sono state tante, cambiano. Dipende anche dagli incontri che faccio.
Sicuramente una che non ho conosciuto, ma per il modo in cui me ne hanno parlato sia Emma Dante che Arturo Cirillo, è Valeria Moriconi. Ho studiato le sue interpretazioni, dall’ironia de La locandiera passava a fare una Medea veramente credibile, credo l’unica per me.  L’ho vista per curiosità, prima di fare Medea con Leonardo Lidi. Era una attrice che aveva in sé queste due anime.
Poi sicuramente Anna Magnani, poi c’è stato un momento in cui Isabelle Huppert era un po’ il mio modello, mi inquietava tantissimo. Però lei non ha, per esempio, l’ironia e allora sono passata a Valeria Bruni Tedeschi
Diciamo che mi piacciono le donne che hanno la facilità e la spudoratezza di cambiare, di essere brutte, cattive, vecchie e il giorno dopo belle, fighe, autorevoli. Mi piacerebbe poter essere tutte queste cose.

Mi piacerebbe poter essere tutte queste cose. Era la domanda che volevo farti all’inizio, e invece te la faccio alla fine.
Che cosa significa per te essere un’attrice?

Vivere la vita, vivere una vita fortunata.

Valentina Picello ha appena debuttato ne La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams per la regia di Leonardo Lidi in scena al Teatro Carignano di Torino fino all’11 maggio, al Teatro Mercadante di Napoli dal 13 al 18 maggio e al Teatro Vascello di Roma dal 20 al 25 maggio.

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