“Amleto”, atleta di una moderna macchina barocca di Laura Novelli

Foto di Claudia Pajewski

Un grande velo scuro chiude alla vista del pubblico la macchina scenica dove, da lì a poco, si (dis)articolerà la tragedia più nota e più teatrale di sempre. Alle sue prime battute, l’Amleto diretto da Giorgio Barberio Corsetti, e tornato in cartellone all’Argentina di Roma dopo il debutto dello scorso anno, vive tutto nello spazio intimo di un proscenio in penombra, che isola il protagonista dall’intero contesto anticipandone l’inafferrabile natura fragile e tormentata e – tanto più – mostrandone la declinazione istrionica, ambigua, fortemente metateatrale. Come un personaggio pirandelliano, Fausto Cabra arriva sul palcoscenico dalla platea: abiti casual e moderni, capelli scomposti, voce alleggerita da qualsivoglia solennità stonata, il suo Amleto inizia da “essere o non essere”, recitato mentre prende forma il pericoloso tentativo di porre fine alla propria vita versando acqua su dei cavi elettrici posti sotto i piedi nudi.

Foto di Claudia Pajewski

Nella semplicità di questo incipit fantasioso e sghembo si radica il senso più profondo del testo. Non serve altro per “catturare” l’attenzione degli spettatori. Per anticipare – con uno sfasamento drammaturgico di grande effetto – il nodo del dramma, che è poi il nodo di dolore di tutti noi: quell’atroce vulnerabilità dell’animo umano che solo il Teatro può raccontare. O, almeno, immaginare di raccontare. Ecco allora che, una volta terminato questo assolo simbolicamente così nevralgico, le luci della platea si spengono, il velo nero che fa da sfondo cade e la scena si apre all’arrivo degli Attori. Colorati, pop, contemporanei (firma i costumi Francesco Esposito), essi sono gli interpreti stessi dei diversi personaggi della tragedia ma anche – pirandellianamente – quegli istrioni girovaghi che inchioderanno la coscienza di Claudio alla sua colpa.
Parati a corteo, ridanciani ma compassati, li vediamo attraversare la poderosa impalcatura metallica mobile, progettata dallo scenografo Massimo Troncanetti: cuore pulsante della bella regia di Barberio Corsetti. Un luogo/non luogo fluido e labirintico che, tra scale, scorci in prospettiva, piani alti, pedane oblique e piante da giardino, non solo allude a tutti i luoghi immaginati qui da Shakespeare ma obbliga gli interpreti a continui spostamenti: salite, discese, capriole, cadute, stati di equilibro precario capaci di amplificare il tema stesso dell’ambiguità della vita e, al contempo, di rendere molto vivace l’alternanza delle presenze e delle assenze sceniche. Lo spazio dilata dunque la drammaturgia. Se ne fa carico. La riverbera. I riferimenti possibili vanno ovviamente all’impiego dell’heaven nel teatro elisabettiano ma – soprattutto – a precedenti lavori del regista romano (pensiamo soprattutto all’acrobatico, splendido, allestimento de Le Metamorfosi di Ovidio realizzato nel 2002) e ad alcune note regie di Luca Ronconi (da Gli ultimi giorni dell’umanità ad Aminta, da Lehman Trilogy a Memorie di una cameriera) connotate da un impiego quanto mai fluido e coraggioso di tutte le dimensioni spaziali.

Foto di Claudia Pajewski

Ma prima di ogni cosa, questo ingegnoso catafalco praticabile rimanda all’idea di una macchina barocca che svela e nasconde, mostra e custodisce, illumina e oscura. Metafora universale di quel precipizio nel vuoto che dal Seicento – e proprio da Amleto – ci parla del non senso dell’esistenza, della falsità delle relazioni, degli inganni della politica e del potere. Motivo per cui questa lettura della tragedia, proprio nella sua modernità di impianto, colpisce per la forza con cui, paradossalmente, ci restituisce tutta la complessità e la bellezza dell’opera shakesperiana. L’impareggiabile traduzione di Cesare Garboli arriva, infatti, al pubblico chiara e cristallina come una pietra di quarzo, intervallata dalle avvolgenti musiche di Massimo Sigillò Massara che sottolineano con un leitmotiv grottesco e struggente alcuni passaggi salienti della trama. Chiusi nel loro castello di ferro, gli interpreti si muovono agilmente tra le battute: il bravissimo Fausto Cabra è un Amleto energico, passionale e combattuto che coniuga coloriture punk (come non ricordare la celebre messinscena di Eimuntas Nekrošius?) e una gestualità mai sguaiata, modulando la recitazione su un registro scivolato, persino colloquiale, dove a tratti stridono, però, alcuni accenti forse troppo larmoyant. Ottime anche le prove di Francesco Sferrazza Papa che è Orazio e di Pietro Faiella (Polonio), mentre ondeggia tra stralunato disicanto e registri ancora acerbi la giovane Ofelia di Mimosa Campironi, molto incisiva nella bella scena della follia. Più deboli ci sono parse, invece, le prove di Paolo Musio (Claudio e Spettro), Sara Putignano (Gertrude) e Diego Giangrasso (Laerte).

Foto di Claudia Pajewski

Al netto, comunque, di qualche scelta interpretativa non adeguatamente armoniosa, lo spettacolo di Barberio Corsetti mostra i segni maturi di una capacità di lettura limpida ed originale, che pulsa di trovate sceniche, che non trascura nessun passaggio del dramma e nessuna sottotrama (c’è ovviamente spazio anche per la vicenda di Rosencrantz e Guildenstern, affidati ai macchiettistici Giovanni Prosperi e Dario Caccuri), così come tiene costantemente in vita il cuore teatrale del testo. Non è un caso che la pazzia “finta” (recitata?) di Amleto sfoghi la sua instabilità su Ofelia mentre i due attori si muovono su una pedana obliqua – e dunque “in/stabile” per natura – da cui essi scivolano in un grande letto. Così come non è un caso neppure che l’ultima scena, quella del duello tra Amleto e Laerte e della morte stessa del protagonista, si svolga in un palcoscenico riempito di specchi: altra incisiva metafora barocca della vacuità del mondo, della doppiezza dei sentimenti, del labile confine tra la vita e la morte, il bene e il male. E, alla fine, dopo che la tragica carneficina dell’epilogo è ormai compiuta, agli spettatori non resta che stupirsi ancora e ancora e ancora di come Amleto sia sempre enormemente, semplicemente Amleto.

Amleto

di William Shakespeare
traduzione di Cesare Garboli
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con (in ordine di apparizione) Fausto Cabra, Francesco Sferrazza, Giovanni Prosperi, Dario Caccuri, Paolo Musio, Diego Giangrasso, Pietro Faiella, Sara Putignano, Mimosa Campironi, Francesca Florio, Iacopo Nestori, Adriano Exacoustos
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
luci Camilla Piccioni
musiche e vocal coaching Massimo Sigillò Massara
movimenti Marco Angelilli
assistente alla regia Tommaso Capodanno
assistente scenografa Alessandra Solimene.
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale.

Teatro Argentina, Roma, fino al 4 dicembre 2022.