“Il Misantropo”: meglio soli o male accompagnati? di Simona Bisconti

Foto di Manuela Giusto

Far parte della società, appartenere a un gruppo, sentirsi accettati e partecipi, ha certamente un prezzo nella vita dell’individuo, che spesso e a volte mal volentieri deve scendere a compromessi con le proprie inclinazioni, le proprie credenze e i propri desideri. È successo a tutti di doversi piegare prima o poi a delle frasi di circostanza o di dover celare il proprio pensiero per non incorrere nel peggiore di tutti i mali, dai tempi della sopravvivenza preistorica alla moderna ossessione di essere visti e cliccati: l’emarginazione. Lo sapeva bene Molière, che dopo la censura di due sue precedenti opere (e l’abbandono della moglie) scrive questa commedia per puntare il dito e ridicolizzare le convinzioni e le ipocrisie della società, fino a condannare anche le debolezze innocenti e i necessari galatei del convivere. Questo è un testo che nonostante risalga al 1600 si presta incredibilmente bene a essere attualizzato per il nostro XXI secolo. La versione in scena a San Pietro in Vincoli, all’interno della rassegna Re-Play Estate di Fertili Terreni, è un adattamento in cui la società contemporanea può direttamente riconoscersi, per codici comunicativi, modalità di interazione e convenzioni condivise. Con il consueto lavoro attento e meticoloso di studio e rielaborazione dell’opera, Marco Lorenzi, regista che ne ha curato traduzione e adattamento, parte dalla difficoltà di incontrare l’altro e di mostrare veramente se stessi, nonostante la necessità di farlo. Forse per questo una parte della scena è seminascosta da un velo e in un gioco di controcampo e doppio riferimento viene svelato il retroscena, ovvero le specchiere dei camerini dei singoli personaggi, davanti alle quali ognuno di essi è messo a confronto con se stesso e prepara il maquillage con cui interpretare il ruolo (in società).

Foto di Manuela Giusto

Seguiamo sulla scena Alceste – nemico dei compromessi, dei capricci e delle ipocrisie del vivere comune – che non riesce in nessun modo a vivere in pace con il suo entourage e si scontra continuamente con i personaggi che attorno a lui stanno a rappresentare altrettanti vizi e debolezze: Celimene, la donna di cui è innamorato, che è capricciosa, bugiarda e ipocrita; Arsinoè che lo ama, infida e invidiosa; Eliante, che anche lo ama ma cela con falsità il segreto; Oronte, che vuole la sua amicizia, ma è servile e viscido opportunista. Solo Filinte è realmente amico del nostro protagonista, ne è la valvola di sfogo, e sostiene la ragionevole diplomazia, spinta anche fino all’estremo.
In questa versione de Il Misantropo, prodotta da Il Mulino di Amleto e A.C.T.I Teatri indipendenti (che insieme a Cubo Teatro e Tedacà costituiscono Fertili Terreni Teatro), Marco Lorenzi sceglie di tenere alcune forme del linguaggio antico e di introdurre termini nuovi e cuffie e telefonini e popcorn, accanto alla lettera originaria del testo. Ci accompagna per mano ad addentrarci nella storia, si comincia con le luci accese sulla platea e l’ammiccamento con il libro dell’opera in mano (che è un invito più o meno esplicito a entrare nel gioco) e si passa poi alle luci di scena. L’allestimento è agile, minimalista, i cambi sono fluidi, le forme della scena sempre cangianti, come in un caleidoscopio. Il gruppo respira insieme, affiatato senza mai mollare neanche per un istante. Ne risulta che l’attenzione del pubblico è sempre attiva e catalizzata. E se da un lato l’adattamento è “frizzante”, sopra le righe e rispetta il senso del gioco e dei ritmi della commedia, dall’altro vive di emozioni credibili, reali, con le quali gli spettatori entrano in empatia.

Foto di Manuela Giusto

Ma è soprattutto in alcune scelte registiche che sembra aprirsi il senso di questo allestimento a doppio filo con l’ultimo successo de Il Mulino di Amleto: Festen – Il gioco della verità, adattamento del 2020 del film di Thomas Vinterberg Festen – Festa in famiglia. Come le due maschere simbolo del teatro sono in realtà la stessa maschera, una con la bocca rivolta in su e una con la bocca rivolta in giù, così questi due spettacoli sembrano rispecchiarsi l’uno nell’altro, pur restando marcatamente e specificamente diversi. I sottotitoli cambiati dalla compagnia suggeriscono la direzione per intuirne il senso: quello de Il Misantropo è diventato infatti una commedia sulla tragedia di vivere insieme.

Foto di Manuela Giusto

Sia in Festen che ne Il Misantropo ci sono delle verità sommerse che sottendono una convivialità superficiale e fragile, e in entrambi i casi è un singolo, insofferente, un capro espiatorio, che si fa carico di portare alla luce, all’evidenza, ciò che non è detto. Per similitudine di struttura dei testi originali, in entrambi i casi fino alla fine resta una sorta di ambiguità, un dubbio instillato che forse la ragione non sia completamente da una parte, ma anche nelle necessità e nei tentativi goffi e frivoli del gruppo a cui ci si ribella. Necessariamente Festen affonda la tematica nelle ombre cupe e inquietanti, nere, mentre Il Misantropo risplende di tinte compatte, forti e brillanti, con predominanza di rosso. In entrambi i casi il messaggio è amplificato dal contrasto tra il momento di festa e leggerezza del gruppo e le rivelazioni o le esternazioni del singolo, che si prende la briga (e di certo il gusto, direbbe De André) di rovinare l’umore di tutti quelli che nel gioco della finzione si trovano a loro agio e che non vorrebbero essere interrotti.
Molti sono gli elementi che hanno richiamato alla memoria attimi di Festen, come per allacciare sempre più stretta la corrispondenza tra i due spettacoli, per comporre un unico quadro nella ricerca artistica sulla tematica del vero e del falso: l’uso sapiente della musica, come atmosfera ma anche come portatrice di senso, il velo che separa una parte della scena con la funzione di coprire e svelare contemporaneamente (ma anche mettere in relazione con ciò che è invece dichiarato), l’utilizzo di spazi altri al di fuori della metratura del palco. Ma soprattutto la scelta di rivolgere lo sguardo direttamente al pubblico, di coinvolgerlo, di renderlo partecipe della scena, costringendolo ad uscire dalla passività di spettatore e a diventare l’interlocutore a cui si chiede “tu cosa ne pensi?”. Il regista Marco Lorenzi è presente in scena, governa una parte della tecnica e indossa una felpa con scritto tribunale. Sintetizza così alcuni passaggi di trama ma soprattutto rimanda alla presenza costante di un consesso di giudizio: c’è chi giudica e chi è giudicato. «Per quanto voi vi crediate assolti, sarete sempre coinvolti», ritorna alla mente ancora De André.
Ci sono cose che si possono dire in pubblico, che si possono rivelare ad alta voce (a quelli che le sanno già ma le tacciono) e altre no. Ci sono delle manfrine da dover rispettare come prezzo del far parte di un gruppo, di una società, del branco. E c’è Alceste, che se ne frega e non teme l’isolamento a cui porta la sua integrità. Alceste non si chiude nella solitudine per scelta d’altri, non è un emarginato. Lui sceglie di andarsene, di rinunciare alla compagnia dei suoi simili perché li disprezza, li ritiene non all’altezza dei propri ideali, della propria verità. E il gruppo si dispiace per la perdita, certo, ma giusto il tempo di rimettere in moto la giostra, di ricominciare il copione sempre uguale, ad libitum, perché in definitiva, il gruppo, non ha bisogno di lui.
A questo punto le strade di Festen e de Il Misantropo sembrano separarsi, la bilancia della giustizia in questo spettacolo non sembra tuttavia pendere per tutti dalla stessa parte, perché in definitiva ciascuno resta della convinzione delle proprie certezze. Ma d’altra parte questo Misantropo, per dichiarazione, è una commedia sulla tragedia. E allora ridiamo tutti, per non piangere.

Il Misantropo – una commedia sulla tragedia di vivere insieme

regia, traduzione e adattamento Marco Lorenzi
con Fabio Bisogni, Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Marco Lorenzi, Federico Manfredi/Angelo Tronca, Barbara Mazzi, Raffaele Musella
visual concept Eleonora Diana
tecnico di compagnia Giorgio Tedesco
assistente alla regia Yuri D’Agostino
foto di scena Manuela Giusto
consulente ai costumi Valentina Menegatti.
Produzione Il Mulino di Amleto / Acti Teatri Indipendenti.
Spettacolo selezionato dal Bando CORTO CIRCUITO 2020 – Piemonte dal vivo.Rassegna Re-Play Estate.

San Pietro in Vincoli (TO), dal 1° al 3 agosto 2021.